La radice di tutti i mali: l’economia come ideologia

 

La radice di tutti i mali: l’economia come ideologia

«Lo sviluppo economico è diventato una finalità a sé, sconnessa da ogni fine sociale». Lo scrissero Bernard Perret e Guy Roustang in L’Économie contre la société. Affronter la crise de l’integration sociale et culturelle (Parigi, Editions du Seuil, 1993). Oggi come ieri è un’affermazione più che condivisibile volta a mettere in guardia sul fatto che da “mezzo”, l’economia stesse divenendo sempre più un “fine”.

In effetti basta guardarci alle spalle in senso cronologico: nei trent’anni della globalizzazione l’economia è divenuta molto di più che una semplice «forma di conoscenza di alcuni fenomeni sociali». Essa si è fatta “tecnica economica”, allontanandosi anni luce dai postulati classici di quella che, per l’appunto, era l’economia “politica”.

Nella società massificata del Terzo Millennio la logica economica è diventata la mentalità corrente e imperante che ha finito per orientare i rapporti sociali, uniformare il senso comune, emarginare la morale e ogni forma sociale.

Il combinato disposto dalla globalizzazione e dal neoliberismo ha trasformato l’economia in ideologia. Essa, infatti, ha perso la sua originaria e naturale vocazione di «problema di dislocazione delle risorse» per divenire una logica per la gestione societaria. In tal modo si è evoluta pericolosamente in una concezione del mondo univoca e in una tecnica di controllo e di dominio.

L’economia come ideologia è dunque definibile come la pretesa dell’economia di esercitare il predominio sulla cultura e sulla politica imponendo su di esse il suo modo di “pensare la realtà”. Ciò poteva avere delle conseguenze “arginabili” finché la società avesse continuato ad essere un insieme relativamente omogeneo con un forte contenuto comunitario. Ma le migrazioni interne al “villaggio globale” e l’alienazione tecnologica hanno “liberato” il contenuto ideologico presente – fin dalle origini – nelle teorie economiche dal condizionamento dei fatti e dai limiti imposti dal sociale.

Per questo, come scrisse Jean Baudrillard in La transparence du mal (Parigi, Editions Galilée, 1990) l’economia – dopo il crollo del Muro di Berlino – è entrata nella «sua fase estetica e delirante» e da veicolo delle ideologie che si sono combattute tra loro durante la “Guerra fredda” è divenuta essa stessa “ideologia” costruendo una filosofia sociale propria dandosi, come è accaduto, una veste normativa.

L’economia è passata così dalla sfera privata a quella pubblica e si è assunta il compito di segnare la strada per dare risposta alle attese del mondo forzatamente globalizzato. Tali risposte sono passate tutte per un radicale cambiamento della natura dei rapporti sociali, per quell’«oggettivazione dello scambio» – per dirla con Simmel – che elimina con un colpo di forbice ogni componente emozionale o istintuale da questi rapporti prescrivendo che essi debbano essere organizzati per dare alla realtà un assetto stabile e al mutamento un indirizzo prevedibile: quello che sta accadendo nella nostra società “grazie” al Covid-19 è la cartina di tornasole di questa mutazione genetica dell’economia in ideologia.

Abbiamo assistito – distratti, più che impotenti – all’economia come tecnica economica che si è sostituita senza fretta ma senza tregua all’economia come forma di conoscenza di uno degli aspetti del sociale. Da ciò si è originato un potere senza più controllo ed uno stile di vita fondato solo sull’interesse e sul calcolo che inevitabilmente ha lacerato le fondamenta del legame sociale.

L’elemento emozionale e “pre-razionale” della vita individuale è stato sradicato e oggi ci troviamo con le radici recise: il deserto culturale, la socializzazione della cultura, la messa in liquidazione dell’intera cultura di tradizione umanistica sono solo alcuni degli effetti più devastanti del processo di de-costruzione e ri-costruzione del mondo globalizzato nell’ultimo trentennio. 

Oggi più che mai, dunque, serve necessariamente un pensiero forte, alternativo a questo schema impostoci coercitivamente che sappia recuperare il senso della nostra storia, della storia della cultura moderna. Un senso legato – com’è da sempre e indissolubilmente – alla liberazione dai confini del presente entro i quali la mentalità economicistica del neoliberismo globalizzante e la razionalità strumentale ci hanno richiuso. Una strada certamente in salita, ma l’unica da imboccare e percorrere.

Torna in alto