La retorica della scontentezza
Il Natale è passato, la digestione di pranzi e cene ancora no, e l’orizzonte del Capodanno e dell’Epifania fanno intravedere ancora qualche chilo da affrontare.
Ciò che però mi ha colpito molto in queste feste, oltre alle fenomenali creme al mascarpone di mia nonna, è quanto successo andando a trovare degli amici.
La bambina più piccola di casa, infatti, ha avuto una reazione che mi ha colpito allo scartare dei suoi regali: era triste.
Va bene, siamo tutti d’accordo nel ricordarci che quando da piccoli vedevano spuntare il pigiama e i calzini dalla carta colorata, non eravamo contenti come davanti al giocattolo che sognavamo da settimane, forse mesi. Ma stavolta, credetemi, era diverso.
Il regalo che questa bimba ha ricevuto era un bel giocattolo, da quel che so costato pure una cifra discreta. Perché allora si è messa a piangere e gridare insoddisfatta, come se fosse successa una cosa terribile? Ve lo dico io: quella bimba – avrà 9-10 anni – voleva un iPhone.
Sì, avete letto bene.
Allora ho pensato, lasciando trapelare dal mio volta una certa perplessità, a quanto fortunata è quella bimba ad aver ricevuto un bel giocattolo costoso. Anzi, a quanto è fortunata a poter sapere persino cosa sia un iPhone.
Molti bambini di oggi sono stati educati alla retorica della scontentezza, un po’ dalla società turbo-capitalista autocentrata sul più sfrenato liberismo e relativismo morale, non sanno più stupirsi, dire “grazie”, essere felici per il “dono” che ricevono. È una perenne insoddisfazione autoreferenziata, che si alimenta di desideri indotti multimedialmente e inesauribili per la loro stessa infondatezza.
Siamo davanti a generazioni di eterni infelici, come l’ eterno ritorno di Nietzsche, un via e vieni di emozioni e sentimenti senza razionalità, da anteporre a qualsiasi solidità spirituale, oggi troppo ingombrante per essere di moda.
Che fare davanti a questo? Non vorremo mica lasciar piangere la bambina? Direi di no. E allora, posso darvi un consiglio? Per le feste, ai bimbi, regalate la disciplina di un abito di vita che si fondi non sull’avere, ma sull’essere; non nel soddisfacimento apatico dei piacere, ma nel sacrificio che dà valore alle conquiste; non nel comandare e nel pretendere, bensì nel guadagnare con merito e nel rispetto ossequioso.
A quel punto, credo, la bimba non piangerà più per la delusione, ma con una riconoscenza che le rimarrà impressa, tornerà a dire “grazie mamma, grazie papà” tutta la vita.