Era di bronzo sulla scrivania di mio nonno il bollettino della Vittoria “F.TO DIAZ”, accanto c’era la foto del fratello in uniforme da ufficiale morto a Caporetto, baffi a manubrio, le spalline con frange, la sciabola, un dagherrotipo avana in cornice dorata, ognuno conservava geloso e fiero i propri eroi, erano i Lari delle case, caduti a centinaia di migliaia nella Grande Guerra.
“Comando Supremo, 4 Novembre 1918 ore 12
La guerra contro l’Austria-Ungheria che, sotto l’alta guida di S.M. il Re, duce supremo, l’Esercito Italiano, inferiore per numero e per mezzi, iniziò il 24 Maggio 1915 e con fede incrollabile e tenace valore condusse ininterrotta ed asprissima per 41 mesi è vinta”.
La Domenica del Corriere sotto la tavola di Achille Beltrame commentava così l’evento:”Il nemico, il barbaro aguzzino è in rotta, e le terre fatte sacre da un anno di martirio tornano alla Patria”.
Forse a quella data spirava il Romanticismo italiano, quel sentimento nazionale di un destino comune nel disegnarsi una Patria, poi sarà una lunga estenuante guerra civile per demolirla e forse lì s’annidano le tante, troppe sconfitte, non solo militari, che bruciano sulle mutilazioni subite e le mille ferite rimaste aperte.
La sconfitta storica per antonomasia, si sa, fu a Caporetto (oggi comune sloveno, sic!), disfatta per le truppe del regio Esercito guidate dal gen. L. Cadorna costrette a ritirarsi dall’Isonzo fin giù, giù al Piave, lasciando il Friuli nella buia miseria, ma da quelle placide sponde ripartirà la vittoriosa offensiva italiana “Indietreggiò il nemico/Fino a Trieste, fino a Trento/E la vittoria sciolse le ali al vento/Fu sacro il patto antico/Tra le schiere, furon visti/Risorgere Oberdan, Sauro, Battisti”. A scuola gli studenti dovrebbero cantarla a squarciagola La leggenda del Piave, altro che Bella ciao! Brano composto dal maestro Ermete Giovanni Gaeta, assunto nel ’44 a inno nazionale d’Italia, poi fu scartato da un ex deputato austro-ungarico Alcide De Gasperi.
Per ribaltare il risultato sul campo di battaglia, il Re, in quel tragico autunno del 1917 cambiò Presidente del consiglio e Orlando licenziò Ministro della Difesa e Capo di Stato Maggiore sostituendo Luigi Cadorna col più giovane Armando Diaz, il risultato lo conosciamo.
Veniamo ad oggi, siamo in guerra, una terza guerra mondiale senza dichiarazione, ambasciatori, con gli arsenali militari fermi, niente sirene al fruscio sordo degli aerei, il nemico è invisibile, inutili i radar, i satelliti spia, lo scudo degli armamenti nucleari. I bollettini dal fronte sono quelli della Protezione civile, numeri seguiti dal fruscio di pagine dei Dpcm. Bellum intestino senza assalti alla baionetta né i duelli aerei di Francesco Baracca, ma è anch’essa guerra di posizione, non la trincea scavata sul Carso ma le mura domestiche dove i vecchi marciscono da soli, barricati, spiando le possibili infiltrazioni del nemico venuto da Whan, un Mefistofele costruito in provetta e speditoci senza affrancazione per stendere supino l’Occidente. Obiettivo strategico colto appieno, economie in abisso, dolomiti di debiti, paura pandemica d’infettarsi con la morte ronzante nell’aria, non sai dove si posi l’eterno terrore di un’umanità che ha ucciso Dio.
Questa Caporetto ad angolo giro sembra non conoscere il mormorio del Piave, la resistenza si estingue nella clausura stretta, ma da lì non s’ ascoltano i canti angelici delle Clarisse, il bisbiglio di preci, tutt’altro, s’ode il gracchiar dei corvi, ripetono a iosa lo stesso verso COVID, si beccano tra loro in camice bianco nei salotti TV dove ormai sono le prime donne, le virus-star.
Qualcuno ipotizza l’avvento di una tirannia sanitaria con la quale resettare il mondo trasformando i popoli in branchi di sciocche galline ovaiole, tutte di corsa a beccare un po’ di miglio stando al sicuro nelle gabbie, teorie gotiche, fantasmi nella tempesta, ma un fatto è certo, assai più delle sirene vaccinali, respiriamo l’aria gelida della notte del mondo, aggrappati alla sedia sfondata della ratio, profezia di M. Heidegger.
Qui sulle sponde di Ausonia, l’Italia da un pezzo non c’è più, non si ha neppure il coraggio né la dignità di cambiare ammiraglio ed ufficiali della nave in burrasca, col timone in balia del vento, nessun ammutinamento, solo un latrare inutile di cani e ricalcando le orme di Cadorna se le cose vanno male le colpe sono della ciurma e dei passeggeri, prendeteli a frustate e guai a chi si ribella, è un rigurgito fascista al soldo delle mafie.
Col nostro stato Maggiore e con quest’Europa di cartongesso l’invocazione cantata dai balconi in primavera “Ce la faremo!” sventolando il tricolore appare come l’isola Ferdinandea, ma una fede testarda che non trova briciole neppure nei sacri palazzi, ci porta allora a strofinare forte quel bronzo della Vittoria, può essere la nostra lampada d’Aladino.