Nell’estate del 1991 mio padre moriva in un letto d’ospedale a Riccione, dove ho trascorso tanta parte della mia infanzia adolescenza giovinezza. (Cristiana mi ha postato la foto del nostro villino messo in vendita – è la misura del tempo tanto e così fragile d’essere costellato da reiterati “addii”. Dall’autunno del ’95 che non ne vedevo la cancellata il pino selvatico il nespolo i cespugli di canne di bambù).
Ero da poco rientrato a Roma da Gorizia, membro di commissione d’esami di maturità al liceo scientifico di piazza Julia e, tra una domanda sulla critica della Ragion pura di Kant e timide risposte o sulle componenti dell’interventismo italiano maggio 1915, ne avevo approfittato per assistere al breve e violento scontro tra la milizia slovena e tre carri armati dell’esercito serbo. Per ore si era levato il fumo denso e acre dei mezzi in fiamme oltre il confine di Case Rosse. Poi, qualche giorno dopo, qualcuno vi aveva steso un lenzuolo bianco sopra e la scritta con la vernice rossa “Norimberga per i generali yugo”.
Il giorno che è morto gli tenevo la mano, fattasi diafana, in attesa di quanto i medici avevano preannunciato. Il respiro sempre più tenue, gli occhi chiusi, immobile. Ed io parlavo, un sussurro quasi, raccontandogli di quanto avevo visto, degli avvenimenti di quelle terre che gli erano care, ci sono care. (Mio figlio Emanuele ne ha ereditato la passione curando la memoria dell’esodo delle foibe del martirio delle genti d’Istria e di Fiume, delle genti giuliane e dalmate). Egli era nato nel 1905 e ricordava gli anni della Grande Guerra quando in cucina seguiva, su una carta geografica appesa al muro, le indicazioni del padre, interventista sabaudo (piemontese venuto a Roma dopo la breccia di Porta Pia), spostando le bandierine tricolori e quelle dell’Impero asburgico. Così gli erano forti conoscenza e sentimento che, confondendo il nome del porto in Albania ove la flotta italiana aveva sottratto all’annientamento l’esercito serbo in ritirata, mi corresse. E le sue ultime parole furono rivolte a Trieste, al Carso, su ad Opicina ove gli austriaci avevano eretto una barricata con i vagoni del tramvai per impedire la discesa degli italiani in città.
A tavola, ai due lati le mie sorelle ed io, lo ascoltavamo mentre – documentato e abile affabulatore – ci parlava di storia, rendendola familiare con la ricchezza di aneddoti che mi sono rimasti nella mente tanto da sfruttarli con i miei alunni. E mi chiedeva, passando da lui, tornando da scuola quali argomenti avessi trattato e mi forniva di approfondimenti nozioni citazioni. Il suo raccontare, però, si fermava con la vittoria del ’18. Voleva che fossimo noi a farci una opinione, un gesto (discutibile forse) di libertà che, però, è stato esso stesso una lezione di vita. Così, quando leggo ascolto vedo, i petulanti soloni del sapere e della informazione accanirsi fino ai confini della “pancetta” e del “guanciale”, nulla avendo da dire in idee progetti visioni e risoluzioni, ho “nostalgia” (nella traduzione proposta da Heidegger) delle cene intorno al tavolo e di una storia che voleva essere capace di coniugare memoria e libertà.