Le donne al GAM

 

Le donne al GAM

[Immagine: Giacomo Balla, Il dubbio, 1907-08]

A Roma il GAM, acronimo di Galleria d’Arte Moderna, ha aperto le sue stanze alla figura femminile nel Novecento, secolo di riscatto dell’Eva italica dal suo ruolino storico di marcia, angelo e demone con lo stesso strumento: il corpo. Un oggetto da ammirare, ostentare nelle vetrine della società borghese, da concupire in pensieri ed opere seguendo il prurito dell’eros, una bambola da amare in ginocchio o un serpente tentatore mentre porge il pomo del peccato mortale. Michelangelo dipinse la testa del maledetto serpe col volto d’ una donna; la sua di Eva per posa e fattezze è pregna di sex appeal, identificazione tra il male e il corpo muliebre, a sostegno della tesi che il peccato originale, chissà perché, covasse nella sessualità femminile.

Giorgio Albertazzi, pur agnostico, sosteneva al contrario che “le cosce delle donne sono la prova evidente dell’esistenza di Dio” e come dargli torto, sono le autostrade che portano alla vita, lui le aveva percorse; il misogino Buonarroti prese forse una “cottarella” a Bologna, poi epistole all’intellettuale Vittoria Colonna, ma di autostrade non ne imboccò neppure una.

Nel Novecento la candida Beatrice si scopre in tutti i sensi, il corpo non si nasconde, al contrario si mostra, da oggetto misterioso ricoperto di stecche, diventa epifania della bellezza in ogni sua forma manifestando l’essenza della sua idea, numeri, proporzioni, armonie tra le parti, cioè la bellezza “classica”. In essa è racchiuso il mistero di Persefone a un tempo ninfa del ciclo vitale della Natura o amante di Ade, enigma mai sciolto anzi più ermetico nelle femmes mortelles della settima arte.

Ma la donna d’Ausonia, col ‘900, scoprì la fabbrica, lo sfruttamento femminile sul lavoro, l’assenza di diritti dentro e fuori le mura domestiche. E’ lei da secoli a mordere il pomo amaro d’Adamo, bambola chiusa nelle tre “c”, casa, chiesa, cucina, o salariata di fame tenuta nell’ignoranza. Alza la testa, ben dritte le spalle, urla a gran voce l’uguaglianza appiccando il fuoco del femminismo che fu cosa buona e giusta per usare un’espressione della Genesi. Giolitti fece il sordo sul diritto al voto, Muslim promise senza mantenere, la rivoluzione scese a compromessi, concesse il voto alle donne per le amministrative ma i Podestà sciolsero i Consigli comunali. Prima dell’esilio il re di maggio firmò il suffragio per l’altra parte della luna e dal ’46 s’aprirono le cabine.

Le donne soggetto dei pittori presenti nella mostra (cento opere), fluttuano tra mito del corpo, sorgente di speculazione filosofica e teologica, fonte inesauribile di poesia, e antro misterico di congiunzione di amore e morte, ispirazione e/o seduzione. Dal simbolismo déco di Le Vergini savie e le vergini stolte di G. A. Sartorio, all’erotismo manifesto de La Sultana di Camillo Innocenti, la sintesi parrebbe ne Il dubbio di G. Balla e poi via via, nel percorso, la donna si spoglia d’ogni predestinazione di ruolo conquistando postazioni progressive d’ autodeterminazione, fino ai teoremi d’oggi che negano il suo compito naturale alla maternità.

Che dire, il filo dipanato è monocolore, la tesi strimpella il pensiero unico, salmodiando il Mantra dei luoghi comuni, stereotipi cari al politicamente corretto sul quale è bestemmia anche un ma… Nel 2008 Matilde Romito, Direttrice dei Beni culturali della provincia di Salerno, allestì una mostra d’opere di quindici artiste vissute nel cupo ventennio, dipingevano bene quanto gli uomini, “Luccichii. Pittrici salernitane degli anni Trenta (1927-1941)”, come dire chi cerca trova. Sentito mai parlare di Lina Arpesani? Tanto per citare un nome forte dell’arte al femminile in gonnella nera.

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