Nel cesto della ghigliottina c’era la testa bellissima dell’Italia, quell’8 settembre, stella cadente, torri sbriciolate dai barbari, dalla viltà bavosa degli Iago, quelli che Ardengo Soffici denunciava ad uno stanco Mussolini. Quel giorno del ’43 fu “la morte della Patria”, amara riflessione del giurista/ scrittore nuorese Salvatore Satta, quella partorita da Dante fino a Oberdan, Oriani, D’Annunzio, ec. Quella testa dai lunghi capelli corvini fu messa in un sacco e gettata via, restava il corpo mozzato sul quale bisognava avvitare un altro cranio, bianco o rosso, lì la contesa, neutro come parola, ad esempio Nazione, luogo dei natii, Paese con la p maiuscola, termine assai vicino ai compagni (pensate a Paese Sera), meglio Stato, un mostro tentacolare, grigio plutocrate del condominio italiano. “La Patria non è un’opinione. O una bandiera e basta. La Patria è un vincolo fatto di molti vincoli che stanno nella nostra carne e nella nostra anima, nella nostra memoria genetica. È un legame che non si può estirpare come un pelo inopportuno.” scriveva Oriana Fallaci.
La nostra generazione la chiamava reverente Madrepatria, lei era ovunque, nei libri foderati della scuola, nella toponomastica delle città, nei monumenti delle piazze, nei giardini, soprattutto nei discorsi, condimento alle minestre della sera. Non di rado a lei andava un dolce pensiero e una preghiera. Lo Stile dei figli, quella qualità alta, inconfondibile, genetica nasceva dalla testa della Patria, scrigno secolare di valori, virtù perché no anche vizi, sedimentati da infinite azioni, pensieri, comunicazioni, “cose”, in un paesaggio, quello italiano, giardino del mondo, allargando i confini danteschi, un diamante prezioso che rifletteva la nostra Storia colmandoci d’orgoglio.
Una porzione dello stile individuale (dicono il 50%) dipende dai genietti familiari, quelle unità ereditarie che ci fanno uomini, donne, non pappagalli, in più fanno discutere su “a chi assomiglia?”, ma la ricerca genetica, secondo uno studio pubblicato su Science nel 2018, afferma l’esistenza di una cultura trasmessa dall’ambiente, in primis la famiglia, che non è patrimonio ereditario del DNA. Vuol dire che l’altro 50% del nostro stile ci viene dalla patria tellus, quell’ambito culturale, religioso, politico, artistico, capace di darci il lorenziano imprinting che ci fa essere questo, non quello.
Nel sacco vuoto dello Stato, frugando, troviamo solo bilanci e balzelli, lo percepiamo come un Minotauro al quale sacrificare tempo e denaro finché non ci salti alla mente di svignarcela alla Tolstoj per il timore di lasciarci le penne pur di far quadrare i conti imposti dall’UE.
I nostri nonni mai sparlavano dell’Italia, drizzavano la schiena al sentire il suo nome, ciascuno in famiglia aveva dato vite per quell’idea forte, era l’antica tradizione della pietas romana invocata anche da S. Tommaso nei confronti della Patria, invece, col tempo, l’anti italianità è divenuto il gene malato dei discorsi, simile al comportamento, dicono, dei libanesi.
“E’ bene avere ideali impossibili” scriveva la poetessa anacoreta Cristina Campo, una sfida titanica per una comunità che non s’ arrende, come la nostra, dinanzi a noi l’oceano alla ricerca di una nuova o meglio cara vecchia terra, l’Itaca abbandonata, gettando a mare gli abiti lisi con impossibili rattoppi.
Nella stiva i marinai troveranno una lingua, quella del sì sciacquata in Arno, la più bella del mondo, non fatta per soddisfare necessità quotidiane, punto e basta, non lingua di mercanti e pirati, ma scrigno di poesia nei suoni come nei significati. Troveranno l’arte millenaria di un popolo, non quella dell’io borioso in attesa del fulmine dell’immaginazione. “La concezione individualista dell’arte per l’arte è superata. Deriva di qui una profonda incompatibilità tra i fini che l’arte […] si propone e tutte quelle forme d’arte che nascono dall’arbitrio […]di un cenacolo, di un’accademia” scriveva Sironi nel ’33 guardando ai grandi cicli murali di Giotto e del Quattrocento. Architettura, scultura, pittura, arti minori, in un unico organismo narrante per chi vi legga i valori di un popolo.
Troveranno, quei marinai, l’epica italiana, quel Risorgimento che fu rivoluzione lunga nel panorama della restauratio europea, come osservava B. Croce. Dai moti del 1830-31 al ’48, le cinque giornate di Milano, Curtatone e Montanara, Goito, Roma, Venezia, le guerre d’Indipendenza fino alla Reggenza del Carnaro per non andare oltre. Scopriremmo che nel ’42 l’ultima carica di cavalleria fu italiana, nella Campagna italiana in Russia, s’ era a Isbuscenskij sul fronte orientale e fu vittoria. Sulla collina del Doss a Trento s’erge il mausoleo a Cesare Battisti, patriota irredentista impiccato per aver scelto l’Italia come Patria; schiaffo dei tempi ora, un Cesare Battisti, terrorista latitante, pluriomicida scende all’aeroporto di Ciampino per imboccare Rebibbia. Prendiamo il positivo di questo assurdo della storia, qualcosa sta cambiando ma non è ancora lo stile della la Patria.