Lo Stile della Patria: “Rapisci la luce alle fauci del serpente”

 

Lo Stile della Patria: “Rapisci la luce alle fauci del serpente”

E’ un eufemismo voler dare uno Stile a chi già ne ha uno distintivo di un’identità nazionale precisa, pensiamo alla Gran Bretagna per esempio. Questa parolina breve, magra, di sole due sillabe, assume pesi specifici diversi a seconda del contesto, c’è lo stile nel camminare o quello più alto e nobile della cupola di S. Pietro, la differenza è palese eppure qualcosa unisce i due, la manifestazione, lo Stile è epifania dell’essere, di più, è l’essere stesso nella sua rivelazione, irripetibile perché unica.

Sovente pensiamo a questo lemma piccino come a qualcosa di soffice, impalpabile, nuvola effimera rispetto alla crudezza della vita, è l’impronta digitale di un artista o il raffinato estetismo dannunziano. Ma così non è se il sostantivo ci rimanda, oltre all’etimo latino stilus, al greco stylos, colonna portante in architettura come del carattere proprio di una persona, ancor meglio di un popolo.

Spesso, nella Storia, lo stile nelle arti ha talmente contraddistinto un’epoca da incarnarla per intero, si pensi all’età classica ateniese, al Rinascimento, al Barocco, al periodo vittoriano. In questi casi le Muse hanno forgiato lo Stile d’ una comunità trasmettendolo ben oltre gli steccati politici, religiosi, socio-culturali dei singoli Paesi.

Non c’è stile però senza una Patria, in tal senso l’Italia di oggi è nome proprio d’ un organismo che non c’è, un’opera d’orchestra felliniana, senza quella magica parola, gettata nel baule, esistono solo stili settoriali o ancor più nanerottoli individuali, fuori da un tessuto comunitario.  

Nella nostra storia recente c’è una data di decesso della Patria, com’ebbe a dire Salvatore Satta, l’ illustre giurista, fu l’8 settembre del ’43, l’adolescente Italia venne consegnata al patibolo al pari della pulzella d’Orléans. Eppure quella parola, Patria, era il traguardo di generazioni, per lei fu versato  sangue sacrificale entro e fuori dei confini, perciò la democrazia pop disse: basta! Riponiamola serrata in un cassetto e possibilmente non la si pronunci più. Lo scomparso Guido Ceronetti a un giornalista che lo stuzzicava sull’Italia, dichiarava che essa non è una Patria, ancor meno la Madrepatria della quale si doleva d’essere orfano, tant’è vero che quella mamma era stata ribattezzata Nazione (luogo dei nativi) o Paese (ricordate il sinistro quotidiano Paese Sera) o ancor peggio Stato, apparato simile al Minotauro ingordo di vittime sacrificali in nome del denaro.

Quella fanciulla turrita, di bellezza mediterranea, fu scalzata dal podio, sostituita dalla statua francese della libertà e dismessi i valori della nostra Terra se n’ abbracciarono altri presi a prestito dagli armadi liberisti o dall’eden comunista. Lo stile Italia scemò in dissolvenza, con fretta progressione, la vecchia triade Dio, Patria, Famiglia fu decostruita, anzi assassinata da un complotto trasversale che aveva un nome: il progresso. Sgombrato il campo d’ ogni valore trasmesso da millenni, nel Sahara del relativismo, la nuova Vesta alla quale l’homo vacuus sacrifica l’esistenza ha un nome, tecnè, a lei ciascuno offre testa e pancia senza obiezioni, tanto l’anima non c’è più.

Oriana Fallaci scriveva:” La Patria non è un’opinione o una bandiera. La Patria è un vincolo fatto di altri vincoli che stanno nella nostra carne e nella nostra anima, nella nostra memoria genetica”.

Secondo i risultati di uno studio di ricercatori in campo genetico, pubblicati lo scorso anno sulla rivista Science, la tesi afferma che i geni dei nostri genitori influiscono al 50% sui caratteri d’ una persona, per l’altra metà  è il contesto ambientale a porre mattoni nella sua costruzione, per cui si può parlare di cultura genetica, ed  è la Madrepatria a trasmetterla nella sua interezza con la complessità di sistemi educativi e relazioni plasmando uno Stile trasversale comune, un popolo di orfani dilapida le proprie ricchezze elemosinando poi geni da contesti stranieri.

Recuperare dalla caverna i gioielli rubati ci sembra l’imperativo primario d’un pensiero forte, a partire dalla sacralità della Tradizione, aperta sì ai tempi nuovi ma senza esserne schiava, riportando sul capo la stella di una civiltà millenaria.

La Patria è la vestale della Tradizione, essa conserva e trasmette i caratteri ereditari precipui del nostro farci Storia e a tal proposito Ardengo Soffici affermava: ”La tradizione fa la personalità di un popolo, direi il suo stile. E’ il senso della sua civiltà. Il popolo che tradisce la sua tradizione cessa di essere se stesso. La decadenza e la servitù delle Nazioni procedono sempre dall’oblio del proprio passato e dall’inchinamento alle civiltà straniere”. E’ un selfie perfetto del presente italico, le api volano a cercar polline nei giardini lontani ma, contrariamente a quelle citate da J. G. Herder, a sera non ritornano alla propria arnia, dimentiche della strada, vagano senza meta, stolte e impaurite.

Sempre il Soffici aveva individuato quattro colonne portanti della nostra di Tradizione: lingua, letteratura, arte, religione cattolica (universale), talmente uniche e possenti da fargli dedurre che la razza italiana si fosse conquistata il ruolo di stella polare per il transatlantico del mondo.

Aggiungeremmo noi una quinta colonna: l’epica del Risorgimento; quelli della mia generazione, nel libro foderato di Storia, studiavano il mito dei padri della Patria, quei valorosi, indomiti eroi, attori di un’epopea irripetibile, ci colmavano d’ orgoglio consegnandoci un testamento fitto di responsabilità. B. Croce osservava come l’Italia, unica in Europa, avesse cavalcato la rivoluzione dal ’48 fino all’unità nazionale, continuando testarda fino alla presa di Roma e su, su, tra alti e bassi, fino alla Vittoria del ’18, alla Reggenza del Carnaro e fermiamoci lì per non cadere in apologia.

Che parola pregna d’adrenalina: Rivoluzione, ci serve come il pane a far rinascere lo Stile della Patria.

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