La presunzione indiscussa e indiscutibile, quella vanità elevata a unica virtù di cui mi faccio vanto, libera da ogni remora e mi spinge a identificarmi con uno degli amici più cari, quel Friedrich Nietzsche di cui Marco ha tratteggiato il volto dai folti baffi severi nella copertina di Inquieto Novecento. Anni fa visitai Roecken dove il filosofo era nato nel 1844 e vi è sepolto. Un paesino di un paio di centinaia di abitanti, la casa del pastore resa in museo (l’unico oggetto presente un vassoio per il battesimo e la vendita di CD della musica composta dal filosofo…) e l’intento timoroso e miope del Land di traslare la salma giustificandosi come nel sottosuolo vi siano tracce di lignite che, ormai, è minerale in disuso. Ricordo di aver sollevato la notizia presso il Parlamento europeo tramite Luca Romagnoli senza risposta adeguata – ulteriore riprova di inutile istituzione. Nietzsche ebbe l’intuizione dello Zarathustra in Alta Engadina, siamo nell’agosto del 1881, annoterà ‘quel giorno andavo verso il lago di Silvaplana, attraverso le foreste. Vicino ad un possente blocco di roccia in forma di piramide, non lontano da Surlei, mi fermai. Fu là che mi venne quel pensiero… A seimila piedi di là degli uomini e del tempo’. In ottobre torna in Italia, a Genova, città a lui tanto cara. Ritrova i dolori che lo tormentano, ma anche, tra una crisi e l’altra della sua precaria salute, scopre la Carmen di Bizet. Dopo la musica di Wagner, la grande illusione trasformatasi in un cocente inganno, ispirato da quel ‘meno vita’ eco della filosofia di Schopenhauer, ecco la sensualità le emozioni la passione del mondo mediterraneo, della Spagna, quella Spagna dalle ‘strade brulle e rosse’, come le definirà Robert Brasillach, il mio fratello più caro (cominciate a cogliere le assonanze e… darmi ragione? E se leggete la mia prefazione al Domremy troverete il ricordo di una danza gitana…). Ne viene rapito. Perché l’animo del filosofo è poesia ed egli la trasfigura nei passi di danza del dio Dioniso, nell’ebbrezza e nella gioia di vivere, nelle parole del suo figlio diletto, lo Zarathustra che annuncia ‘l’eterno ritorno’, risposta alla ‘morte di Dio’ ove alberga la disperazione, il senso tragico dell’esistenza mentre occorre ‘non guardare verso lontane speranze, verso benedizioni sconosciute, ma vivere in tal modo che si abbia desiderio di rivivere ancora e vivere nell’eternità come abbiamo già vissuto. Questa vita è la vita eterna, poiché tutto è eterno ritorno’.
Conosco poco Genova – e me ne dolgo sentendo in me lo ’spirito di Colombo’, il mare aperto e l’amicizia di Andrea, fedele e folle come il Céline migliore, e ‘Mercy’ che sfida il mondo con le sue canzoni. Il Così parlò Zarathustra scoperto, sedicenne, sui banchetti di libri usati e da Peppe il Matto, che perentorio me ne chiede copia perché ‘mi hanno detto che parla bene di Mussolini’ e Giovanni Ferraro, libertario, a cui avevo prestato lo Zarathustra, bagnato dal suo sangue versato da stupida mano di sbirro… E la Spagna, di cui ho scritto sovente e sovente mi ritorna in mente con il volto di lei che mi corre incontro al confine. Allora, forse, oltre il vanto futile e vano, posso sentirmi parte dello Zarathustra e della Carmen…