Maggio 1968

 

Maggio 1968

Prossimi alla fine dell’anno. Di questo 2018 in cui si è – poco e male – celebrato il centenario della Vittoria (3 novembre, Villa Giusti, Padova) anche se si è preferito insistere sull’ottusa caparbietà del Maresciallo Cadorna sui soldati mandati a infrangersi fra le pietraie del Carso e i reticolati austro-ungarici la disfatta di Caporetto le decimazioni e i disertori passati per le armi. Una visione cupa e tragica della Grande Guerra senza neppure il riscatto un po’ cialtrone e ostinato offerto dal film di Mario Monicelli.

Altro anniversario. A cinquant’anni dal ’68. Modeste le rievocazioni con protagonisti di seconda mano un po’ bolsi e ingrigiti nel corpo e dentro permalosi stupiti d’essere ormai “nessuno” (i carrieristi, figli dell’uovo marcio della borghesia, tacciono, ignavia non vergogna). E i più patetici come tutti i vecchi, a dirla con Pasolini. Compreso chi scrive con l’ingrandimento della celebre fotografia del 1° marzo a Valle Giulia appesa alla parete dove primeggio in prima fila, bello e ardito, con tanto di bottiglia e spezzone di panchina a mo’ di randello.

Nostalgia canaglia… Di quella mattina s’è scritto ed io non sono stato da meno (Vanità virtù e amica fedele!); oggi no. Il mese di maggio va concludendosi in una Parigi blindata, tetra e con esso la rivolta.  La fantasia che si richiedeva al potere relegata in soffitta. In più parti d’Europa alle armi della critica si preparava quella critica delle armi a tradursi in anni feroci stragi e P38. Il generale De Gaulle e il Partito Comunista, servile a Mosca, si faranno garanti in Parlamento dello scioglimento dei cosiddetti “gauchistes” e, in piazza, i buoni borghesi sfileranno, oltre un milione, dando vita alla maggioranza silenziosa.

Aula Magna della Sorbona. Mi sono ritagliato un posto nella delegazione di studenti italiani a portare solidarietà, pugni chiusi e bandiere rosse. Veniamo accolti al grido ritmato e storpiato di “Valle Giulia! Valle Giulia!”. Conto, nell’università occupata, di sfruttare la fama – bastoni e barricate – trovando una compagna e un sacco a pelo accoglienti. Mi illudo. Sfigato. Mi scoccio dei bla-bla…

 Prendo la metropolitana. Vado alla ricerca del piccolo cimitero di Saint-Germain de Charonne, periferia non ancora degradata, ove Robert Brasillach narra l’insorgere dell’amore fra i due protagonisti de “I sette colori”. Oggi estremo suo rifugio, tomba del poeta, un tripudio di fiori. Mi dico che in fondo ho fatto bene a venire a Parigi. Ciò che conta, permane. I suoi libri, i Poemi di Fresnes (che avrei tradotto venti anni più tardi), gli occhialetti rotondi, il sorriso quasi presago del palo dei condannati a morte il 6 febbraio del ’45.      

Torna in alto