Questa settimana non parlerò di attualità, anche perché probabilmente invierò il pezzo con largo anticipo, per godermi ben una settimana di ferie, nella mia Toscana. Non ho mai negato la mia predilezione per le terre che mi hanno dato i natali, anche perché per fortuna l’hanno dati anche a personaggi ben più importanti, oggi vi voglio tediare con alcune considerazioni su tre di loro. Uno nato a Firenze, uno a Fucecchio, e l’ultimo a Pisa, uomini diversi, per indole e storie personali, ma tutti e 3 in epoche diverse, diversamente Fascisti.
Roberto Ricci, detto Berto nasce a Firenze, 21 maggio 1905, scrittore, poeta e giornalista.Fu uno dei più importanti pensatori fascisti, fondò la rivista “L’Universale” e collaborò con la Scuola di mistica fascista guidata da Niccolò Giani.
Laureatosi in fisica e matematica all’università di Firenze nel 1926, fu professore di tali discipline a Prato, Firenze e Palermo. Da giovane ebbe simpatie anarchiche, ma nel 1932 aderì al fascismo vedendo nel movimento di Mussolini l’attuazione delle idee sociali che da sempre aveva coltivato. Nel panorama culturale degli anni trenta mostrò un particolare attivismo, collaborando con personalità altrettanto fuori dagli schemi, come Giuseppe Bottai, Julius Evola, Romano Bilenchi, Ottone Rosai e Aldo Palazzeschi.
Nel 1931 fondò la rivista quindicinale, “L’Universale”: «Benone, noi facciamo questo foglio assai più per mannai e macellai che per i colletti duri e proseguiremo con quella schiettezza toscana che dà noia a tanti galantuomini e forestieri e seguiteremo a dir bene e male di quel che ci piace e non ci piace; troppa gente c’è oggi in Italia che batte le mani a tutto e a tutti e approva ogni cosa. (..) Fondiamo questo foglio con volontà di agire nella storia italiana, contro la filosofia regnante (..) abbiamo l’ambizione incredibile di portare la letteratura e l’arte all’altezza del primato». Su pressioni Roberto Farinacci, che accusò Ricci di “bolscevismo”, per le posizioni espresse sulla rivista, Mussolini convocò Ricci a Palazzo Venezia. Il Duce chiese a Ricci delucidazioni sulla sua critica anti-idealista e sul suo passato anarchismo. e gli offrì una collaborazione al Popolo d’Italia.
Ricci propose sempre una sua versione del fascismo di forte impronta sociale e identificava nella borghesia (intesa come categoria dello spirito e non solo come classe socio-economica) il vero nemico dell’ideologia Fascista. Si fece sostenitore di: «una tradizione nostra civile, arricchita di millenaria cristianità ma sostanzialmente e robustamente pagana». Il suo interesse per il sociale e per la rivoluzione anti-borghese fece sì che non avesse remore a guardare di buon occhio il mondo bolscevico: «La Russia con la rivoluzione dei comunisti ha fatto bene a se stessa (..) L’Anti-Roma c’è ma non è Mosca. Contro Roma, città dell’anima, sta Chicago, capitale del maiale (..) l’America ci invade e ci avvelena con la sua civiltà senza sale. Sulla via del primato c’è John Bull e Uncle Sam e Cesare dovrà levarseli dai piedi». e ancora: «Bisogna diffidare delle destre nazionaliste, antibolsceviche, antiparlamentari che si mettono in divisa fascista, arrembano il potere e danno elegantemente lo sgambetto a chi ce le ha portate col proprio sangue: camicie verdi o guardie di ferro» Il 25 agosto 1935 con lo scoppio della guerra d’Etiopia uscirà l’ultimo numero de “l’Universale”, L’ editoriale si concluderà con l’epigrafe: “non è più tempo di carta stampata”, tutti i giornalisti de “L’Universale” si arruoleranno come volontari. Con lo scoppio della seconda guerra mondiale Ricci si arruolò nuovamente. Nel gennaio 1941 scrisse ai genitori: “Ai due ragazzi penso sempre con orgoglio ed entusiasmo. Siamo qui anche per loro, perché questi piccini vivano in un mondo meno ladro; e perché la sia finita con gl’inglesi e coi loro degni fratelli d’oltremare, ma anche con qualche inglese d’Italia”. Verso le 9 di mattina del 2 febbraio 1941, il suo plotone fu attaccato vicino a Bir Gandula, in Libia, da uno Spitfire inglese, che lo falciò di netto. Nel 1950 in piena “repubblica nata dalla resistenza” fu insignito della medaglia di bronzo al valore militare. Oggi è sepolto nel Sacrario dei caduti d’oltremare di Bari. Detestato da molti Federali, sospettato di sovversivismo dai Ministri, Ricci fu sempre letto e protetto da Mussolini al quale doveva apparire la personificazione del tipo d’uomo che il fascismo avrebbe dovuto creare per adempiere davvero le proprie speranze. Anche negli anni del consenso, non si stancò mai di invocare una “rivoluzione perpetua” che combattesse quanti, di mentalità sostanzialmente a-fascista avevano trovato posto nel regime portandovi una mentalità borghese estranea allo spirito della Rivoluzione, per lo scrittore fiorentino, si trattava di accompagnare la lotta agli “gli inglesi di fuori”, a quella agli “inglesi di dentro” “Ci sono Inghilterre che abbiamo dentro di noi che bisogna abbattere.”
Ricci ricalcava lo spirito fiorentino, amava gli inquieti, i liberi. Lo stemma della città di Firenze è una macchia di sangue che si trasforma in giglio. La storia di Firenze comincia, con una imboscata, e si incentra nel motto terrorista della famiglia degli Uberti: «Cosa fatta, capo a», che Dante definisce «seme della gente toscana». Dopo secoli di servitù e rivoluzioni morali, i Fiorentini ritrovarono nel fascismo e nell’antifascismo l’ eterna lotta tra guelfi e ghibellini. C’è una pagina bellissima di Vasco Pratolini, prima fascista e poi antifascista, scritta sul “Politecnico”: (rivista di politica e cultura fondata da Elio Vittorini, il 29 settembre 1945 e soppressa su ordine di Togliatti nel 1947)
“Ma anche quei franchi tiratori che si difesero di tetto in tetto, erano fiorentini. La Repubblica Sociale Italiana salvò la faccia a Firenze. Una faccia che spuntava coi mitra dai comignoli e dagli abbaini. Soltanto a Firenze ci fu tra patrioti e fascisti vera guerra civile (..) Rossi e neri dietro le barricate, al riparo di una cantonata, nella linea di fuoco sugli argini di un torrente nelle stesse ore dell’agosto ’44 in cui anche Parigi lottava per la sua liberazione. I partigiani scesero dalle montagne ed i fascisti li aspettarono. Non era più nazi-fascismo contro nazioni unite. Erano fiorentini di due opposte fazioni che si ritrovavano ad uno dei tanti appuntamenti della loro storia.”
Alcuni degli amici di Berto, passati in altri settori politici, ne hanno scritto: «Non gli bastava essere artista, voleva conoscere le ragioni del suo vivere come uomo tra gli uomini; non si accontentava delle parole, voleva cose. Generoso e disinteressato, per sé non chiese che sacrifici, sofferenze e morte. Non i suoi nemici dovevano aver paura di un simile carattere, ma i suoi amici, quelli della sua parte», scrisse Corviè su “Il Settimo Giorno”. Ma la miglior testimonianza ce la dà un suo collaboratore, prima Fascista, poi antifascista, ed infine anti-antifascista, uno dei migliori giornalisti italiani del dopoguerra, altro Toscanaccio, originario di Fucecchio, Indro Montanelli. Nel ’55, scrive un articolo intitolato: “Proibito ai minori di 40 anni” «Quando dalla cittaduzza andai a conoscere il direttore del periodico “L’Universale”, Berto Ricci, col quale avevo scambiato alcune lettere, anche per me il fascismo cominciò a contare qualcosa. Egli fu il solo maestro di carattere che io abbia mai trovato in questo Paese, in cui il carattere è l’unica materia in cui si passa sempre senza esame. E quando di lì ad alcuni anni ebbi deciso di voltare le spalle al fascismo, fu soltanto di lui che mi preoccupai. Infatti, andai apposta a Firenze a parlargliene. Mi stette a sentire, poi disse pacatamente: “Nella vita si può smettere di credere una volta. E io l’ho già fatto ripudiando la mia militanza anarchica. Non posso rifarlo: diventerebbe un mestiere, (::) queste sono faccende in cui s’ha da vedersela con la propria coscienza e nessuno può essere d’aiuto a nessuno. Io ti dico soltanto una cosa, non pensare ai vivi, pensa a quelli che, per restare fedeli con le nostre idee, ci sono rimasti (..). Pensaci, e pensa anche che se imbocchi quella strada devi batterla sino in fondo, sino al confino, o sino all’esilio. Questo solo ti chiedo: di poter continuare a stimarti come avversario, visto che devo cessare di stimarti come amico”». Dirà poi Montanelli: «Credevo di essere diventato, antifascista, ma non era vero, ero soltanto un fascista strano e stanco, anticipavo di qualche anno l’Italia di oggi, smaliziata e utilitaria, degli Italiani che non credono più. Entrai nella compagnia dei grandi scettici. Mai più mi sentirò come mi sentii allora, accanto a Berto, parte di qualcosa e compagno di qualcuno, voglio dire che mai mi ero sentito e mai mi sentirò giovane come in quegli anni e non solo perché ne avessi 20. Io sono fra i rassegnati, so benissimo che di bandiere non posso averne altre e l’unica che seguiterà a sventolare sulla mia vita è quella che disertai prima che cadesse. (..) Forse è venuto il momento di rendere giustizia ai nostri venti anni e di riconoscere che essi furono migliori dei 40, e di dare ragione a chi morendo l’ebbe. Fummo giovani soltanto allora, amici miei». Questo è Indro Montanelli davanti a Berto Ricci.
Del terzo ragazzaccio, pisano, abbiamo già scritto molto, anche perché per molti di noi è il modello politico di riferimento, Giuseppe Niccolai, detto Beppe. Beppe incontra Berto, sui suoi testi, ce ne parla così: “Il mio incontro con Berto Ricci avvenne ritornando dalla prigionia, sui mercatini del libro usato, quando si andava noi alla ricerca di libri che non si trovavano più nelle librerie. Libri che giustificassero la nostra rabbiosa fedeltà ad un regime vissuto in pantaloni corti. Ed è lì che mi incontrai con un libro intitolato “Avvisi” costituito da stringatissimi editoriali, con una prosa minuta, paragonata alla pittura del Rosai (..) . Poi riuscii ad avvicinare la sua famiglia. La moglie, un giorno, apri un vecchio baule e tirò fuori i quaderni di Berto, che sono i quaderni di un Gramsci del fascismo; e allora capii che dietro a quei stringatissimi “Avvisi” c’era una cultura formidabile, filtrata, non mai esibita. Una cultura che andava dalla letteratura giapponese a quella americana, a tutto il Quattrocento e tutto il Cinquecento. Erano, Berto e i suoi amici, uomini, veramente diversi. Il fratello di Rosai, Bruno, scriveva: «Senza una meta precisa prendevamo ad andare lungo le strade che sfociavano nella campagna, esaltandoci ogni volta nel sentirci dentro il paesaggio notturno. Le nostre conversazioni quotidiane, spesso accese come liti, avevano la tendenza a non trovare mai fine. Qualche volta si continuava a passeggiare tutta la notte, sempre accaniti intorno agli stessi argomenti e si rincasava all’alba, per ricominciare il giorno dopo (..) Avevano ambizioni forti, però non erano solo degli intellettuali, l’ultimo “Avviso”, quando scoppia la guerra di Etiopia, dice: «Si chiude il giornale». E vanno tutti volontari in guerra. Il volontariato italiano finisce con loro, con la Repubblica Sociale Italiana e con la «Resistenza. (..) Abbiamo perduto qualche splendido libro, ma si è avuto sottomano il libro aperto di una umanità fatta uomo senza pari, che operò, sofferse, ebbe e dette, dalla forza, la fede. (..) Fu una coscienza senza sonno, innamorata di quella: «Italia dura, taciturna, sdegnosa che portava la, sua anima in salvo soffrendo delle contraddizioni dei ciarlatani, dei buffoni, dei letterati e dei commendatori”
Alcuni autorevoli antifascisti riportano che Berto Ricci sia andato in guerra, perché non credeva più nel Fascismo. Niente di più falso, lo capiamo dalla lettera scritta ad Alessandro Pavolini per perorare il suo arruolamento: «Caro Pavolini, vi chiedo un favore, mi sentirei pochissimo a posto dinnanzi a me stesso e all’Italia se restassi a casa mentre si combatte. Aspettavo una cartolina che non viene, voi siete uomo da capire uno stato d’animo (..) Ho fatto domanda al distretto per essere assegnato ad un reparto combattente, ma ho paura che la domanda resti là a dormire. Non so come andranno le cose dopo la capitolazione francese, ma credo che la partita con gli inglesi non sarà nè brevissima, nè vana. (..) è destino che questa guerra mi faccia patire e far patire molto. (..) vi chiedo, di appoggiare questa domanda che ho fatto. (..) Almeno ai giornalisti dovrebbe essere concesso di combattere. Aspetto da voi una parola e vi ringrazio perché so che farete quel che potrete. Il vostro B.R.»
10 dicembre 1988, a Modugno, città metropolitana di Bari in Puglia Beppe Niccolai tenne una delle sue ultime conferenze. Quando giunse a Bari, aveva già subito una prima, grave avvisaglia del male che lo avrebbe stroncato appena undici mesi dopo, Il suo ultimo desiderio fu quello di recarsi al Sacrario dei Caduti d’Oltremare, ove sono raccolte le spoglie dei soldati morti nel corso dell’ultimo conflitto mondiale. Tra esse, quella del sottotenente di artiglieria Roberto Ricci, detto Berto. Davanti al piccolo loculo Beppe fissò intensamente, quella lapide, fu, il loro muto, aristocratico arrivederci.
22 luglio 2001 nella clinica “La Madonnina” di Milano, muore all’età di 92 anni Indro Montanelli. Il giorno seguente l’allora direttore del Corriere della Sera, Ferruccio de Bortoli, ne pubblicò in prima pagina il necrologio, scritto dallo stesso Montanelli pochi giorni prima di morire:
«Mercoledì 18 luglio 2001, ore 1:40 del mattino. Giunto al termine della sua lunga e tormentata esistenza – Indro Montanelli – giornalista – Fucecchio 1909, Milano 2001 – prende congedo dai suoi lettori ringraziandoli dell’affetto e della fedeltà con cui lo hanno seguito. Le sue cremate ceneri siano raccolte in un’urna fissata alla base, ma non murata, sopra il loculo di sua madre Maddalena nella modesta cappella di Fucecchio. Non sono gradite né cerimonie religiose, né commemorazioni civili.»
Epitaffio che sarebbe piaciuto a Berto e Beppe, che sicuramente lo stavano aspettando nel Valhalla pronti a tirargli una copiosa scarica di “Nocchini” per aver parzialmente abiurato un’idea.
«Compito del futuro immediato, di educazione alla libertà è fare vedere che non si può proseguire all’infinito sulla via del saluto romano, rompete le righe e zitti. Che il fascismo si decida: o con Dio o con il diavolo, o sistema invariabile delle nomine dall’alto o partecipazione del popolo allo Stato, e non semplice atto di presenza alle adunate e versamento dei contributi sindacali. Affogare nel ridicolo chi crede nella discussione e nel dialogo, chi non capisce le funzioni dell’eresia, chi confonde Unità e difformità.(..) Finirla con l’asfissiante frasario a base di ordini e basta. Libertà da conquistare e da guadagnare, da sudare. Libertà come valore eterno incancellabile e fondamentale. Mostrare come la civiltà, la moralità fascista, non possa consistere nei soli ingredienti di fede e polizia. Che anche la libertà di manifestare opinioni, di fare un giornale che dica queste cose è secondaria dinnanzi a quella che l’ultimo italiano deve esercitare: di controllo dei pubblici poteri, di denuncia aperta dell’ingiustizia, di prevaricazioni, da chiunque commessi». Berto Ricci
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