2 giugno 1992: a largo di Civitavecchia, il panfilo della Corona d’Inghilterra “Britannia”, ospitò politici, manager pubblici, privati e banchieri (secondo indiscrezioni perfino un comico che anni dopo fonderà il movimento 5 stelle), per discutere di “privatizzazioni”. Alla riunione parteciparono, fra gli altri, Lorenzo Pallesi, Presidente INA Assitalia, Innocenzo Cipolletta, Direttore Generale di Confindustria, Giovanni Bazoli, Presidente Banco Antonveneto, Gabriele Cagliari, Presidente ENI, e l’allora Direttore Generale del Ministero del Tesoro Mario Draghi. Secondo Fulvio Coltorti capo dell’ufficio studi di Mediobanca stretto collaboratore di Enrico Cuccia, fu proprio Draghi ad organizzarlo, insieme alla società Britannica «British Invisibles».
Nel linguaggio economico-finanziario, «Invisibili», sono le transazioni di beni immateriali. Negli anni del governo dalla signora Thatcher, la Gran Bretagna privatizzò molte imprese, rilanciò la City, sviluppò la componente finanziaria della sua economia a scapito dei lavoratori e della classe media acquisendo uno straordinario capitale di competenze da investire nel settore delle acquisizioni.Sul Britannia si decise la svendita delle eccellenze italiane, e si decise anche la soppressione, tramite “Mani Pulite” di quella classe dirigente che non fosse stata disposta ad accettarla. Vi furono indignate prese di posizione della stampa (allora ancora potevano), interrogazioni parlamentari da parte di esponenti del Movimento sociale, un coro di voci allarmate che ne denunciarono la «regia occulta», tutto Inutile, Draghi e soci avevano già preso le decisioni che di fatto hanno portato ad un radicale mutamento delle politiche economiche (e non solo) del nostro paese, da quella data non c’è privatizzazione italiana in cui la finanza anglo/americana non abbia svolto un ruolo fondamentale. Con queste premesse mi stupisco dello stupore emerso negli ultimi giorni per l’appalto alla società di consulenza Statunitense McKinsey, del PNRR (Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza), cioè la scrittura del Recovery Plan in pratica quello che deve pianificare l’impiego dei 209 miliardi in arrivo dall’Unione europea.
La stipula del contratto è avvenuta segretamente, senza informare il Parlamento, la notizia è stata diffusa da Radio Popolare, e ripresa da alcuni quotidiani. Ma la rivelazione non sta suscitando lo scalpore che meriterebbe. La McKinsey & Company è una multinazionale di consulenza leader al mondo per quota di mercato, si occupa di “budgeting” il processo formale attraverso il quale un’impresa definisce gli obbiettivi da raggiungere, alloca le risorse necessarie, definisce le modalità temporali e organizzative attraverso cui raggiungerli. Fu fondata nel 1926 a Chicago città indicata da Berto Ricci come l’AntiRoma (l’ AntiRoma c’ è ma non è Mosca. Contro Roma, città dell’ anima, sta Chicago, capitale del maiale), da James O. (“Mac”) McKinsey, professore di contabilità presso l’ Università di Chicago. Attualmente ha più di 13.000 consulenti dislocati su 130 sedi in 65 Paesi. Nel 2003, conquistò le prime pagine dei giornali di tutto il mondo assumendo Chelsea Clinton, figlia dell’ex Presidente degli Stati Uniti Bill e della Senatrice Hillary Rodham Clinton. Nella succursale Italiana hanno lavorato, Corrado Passera, Ettore Gotti Tedeschi, Marco Odorisio Alessandro Profumo e Vittorio Colao, dal 13 febbraio 2021 ministro per l’innovazione tecnologica e la transizione digitale nel Governo Draghi. Le consulenze della McKinsey & Company spaziano in molti campi dell’economia e della gestione delle risorse sfociando di fatto, in scelte politiche. Nicola Fratoianni di Sinistra Italiana ha richiesto pubblicamente chiarimenti, Fratelli d’Italia promette un’interrogazione parlamentare. Sul web intanto torna a circolare il rapporto della Corte dei Conti sul ruolo delle società di consulenza nelle privatizzazioni quando Draghi era direttore generale del Tesoro. Tra il 1994 e il 2008 per gestire le privatizzazioni oltre alla McKinsey, vennero chiamate altre 32 società, tutte straniere, per un totale di 163 incarichi. Una lista che comprendeva i colossi del settore come Deloitte, Kpmg, e numerose banche estere, tra cui Rotschild, Morgan Stanley e Goldman Sachs (lo stesso Draghi uscito dal ministero finì assunto da Goldman Sachs).
Complessivamente lo Stato spese per consulenze 2,2 miliardi di euro. La McKinsey non appena è scoppiata la pandemia si è messa a disposizione del governo americano e ha spuntato un contratto da 12 milioni di dollari per l’assistenza completa nel management dell’emergenza, pur non avendo alcuna competenza specifica in campo sanitario. La società è nota a livello internazionale per essere stata alle spalle di numerose decisioni politiche discutibili, inquadrabili nell’alveo del neoliberismo più sfrenato. Nel libro “The Meritocracy Trap” Daniel Markovits attribuisce alla McKinsey la responsabilità di aver esacerbato le disuguaglianze sociali negli Stati Uniti, dove peraltro la società è stata condannata a pagare quasi 600 milioni di dollari in risarcimenti per il proprio ruolo nell’epidemia di oppioidi che ha causato oltre 400mila decessi, l’azienda ha lavorato infatti con la casa farmaceutica Purdue Pharma riconosciuta colpevole di tre reati federali per aumentare le vendite del farmaco oppioide Oxycontin, incoraggiando i medici a prescriverlo in dosaggi sempre più potenti. Per il regime saudita si è occupata di “maquillage mediatico”, stilando un rapporto in cui si misurava il “sentimento” online nel confronto del regime, arrivando ad individuare, con nomi e cognomi, opinionisti e dissidenti che pubblicavano, opinioni sgradite alla corona saudita. Vi sono tracce di un ruolo della McKinsey anche nella fornitura di dati che nell’ottobre 2018, permisero al Governo saudita, di assassinare Jamal Khashoggi. Proprio il tipo di persone a cui affidare il più grande piano di investimenti pubblici dal dopoguerra. Con buona pace di chi auspicava un ritorno di Mario Draghi al suo passato giovanile di allievo di Federico Caffè, archiviato definitivamente il pensiero “keynesiano” Il Recovery Plan italiano seguirà l’agenda più classica del neoliberismo statunitense sprecando l’occasione di impiegare i 209 miliardi per sanare le disuguaglianze e le ingiustizie sociali del paese.
Lo Stato anziché sussumere sotto di sé l’ambito privato, nazionalizzando i settori strategici, e inserendo il concetto di socializzazione delle imprese, fa l’esatto opposto, privatizzando di fatto ogni scelta politica. Se le decisioni politiche, economiche, e culturali, devono essere tutte privatizzate, non si capisce a cosa serva un Parlamento, basterebbe un liquidatore fallimentare, del resto il mestiere di Mario Draghi è quello, come ebbe ad esprimere l’ex presidente della Repubblica Francesco Cossiga “Draghi (..) è un vile affarista non si può nominare presidente del Consiglio dei Ministri chi è stato socio della Goldman & Sachs, (..) È il liquidatore (..) dell’industria pubblica, (..) da presidente del Consiglio dei Ministri svenderebbe quel che rimane” Occorre una contestazione radicale del paradigma privatistico tanto in termini di giustizia e democrazia, quanto su quello della funzionalità. Una reinternalizzazione negli apparati pubblici è l’unica scelta sensata, per farlo oltre ad incriminare per alto tradimento tutta la classe politica che si è succeduta dal 1992 in poi occorre vietare per decreto l’utilizzo di società di “budgeting” straniere, e limitare in appalti votati in parlamento l’utilizzo di società nazionali. Le decisioni di un paese deve prenderle una classe politica per i propri elettori, e non una multinazionale per i propri azionisti.