Un rinoceronte è comparso a Roma al Foro Boario l’11 ottobre scorso, non è scappato dal bioparco, un suo simulacro se ne sta davanti all’arco di Giano, forse per inquietare i fantasmi degli antichi usurai. Eugene Ionesco c’entra pur qualcosa non per l’epidemia di rinocerontite, contagiosa influenza dell’ignavia romana alle prese con la quotidianità alienante. Rhinoceros è un dono di Alda Fendi alla città addormentata, un bacio per ridestarla dal torpore nel quale si crogiola aspettando un Godot sempre evasivo all’appuntamento. Il pachiderma è un palazzo comunale in avanzato stato di decomposizione a suo tempo acquistato dalla Fendi, 3.500 mq sviluppati su sei piani, restituiti al Rione Campitelli con il progetto di restauro dell’architetto francese Jean Nouvel alla sua “prima” capitolina, in equilibrio tra conservazione dell’esistente (le facciate) e innovazione dell’organismo interno. Un contenitore espositivo stabile per il mecenatismo della Fondazione Alda Fendi-Esperimenti ma anche molto altro; i primi due piani vocati a mostre, teatro, performances, incontri, due piani trasformati in mini appartamenti e gli ultimi due in ristorante, caffetteria bar con vista mozzafiato su Roma dalla terrazza, panorama da Grande bellezza. Un regalo coi fiocchi della Fondazione, unico nel suo genere, una cittadella dinamica dell’arte dove si incontrano, amalgamandosi, esposizioni, shopping, hotelleria, alta ristorazione, ma dove l’arte è un continuum, miscelato a tutte le funzioni.
Il primo rinoceronte è Michelangelo, in vetrina con 12 disegni architettonici originali di progetti per Roma e Firenze commentati da J. Nouvel, ma la “chicca” è una scultura Il Ragazzo accovacciato proveniente dal Museo dell’Ermitage di S. Pietroburgo, che il “divin ribelle” estrasse da un pezzo di scarto tra il 1524 e il 1530 ma per alcuni studiosi ancor prima.
La statua, alta 54 cm, perciò piccina, da forma ad un giovane ignudo accucciato, intento a liberarsi di una spina dal piede destro secondo l’iconografia dello Spinarius, motivo d’età ellenistica attenta alle rappresentazioni di genere, alla minuta vita quotidiana. Il più celebre, in bronzo, è nei Musei Capitolini dono di Papa Sisto IV (pontefice dell’omonima cappella) alla città di Roma nel 1471, mentre una copia in marmo è agli Uffizi di Firenze. Questo per supporre che Michelangelo avesse conoscenza del soggetto, assai studiato nel Rinascimento, tanto da riproporlo depurandolo dalla serenità bucolica per curvarlo ai suoi tormenti. Secondo recenti studi sullo Spinario capitolino, dopo il suo restauro, il giovane pastorello sarebbe Ascanio figlio di Enea, capostipite della gens Julia, il ragazzo del Buonarroti manifesta invece il dramma conflittuale tra il corpo e l’anima, tema ricorrente nella statuaria di M., basti andare ai Prigioni.
Ma quest’opera è autografa? No, non ce n’è traccia nelle biografie del Maestro, essa è stata attribuita a Michelangelo per associazione a uno schizzo epistolare di scultura forse destinata alla Sagrestia Nuova di S. Lorenzo o al faraonico Mausoleo funebre di Papa Giulio II. Forse è solo un modello di bottega, una prova, tra l’altro non finita, altra particolarità del Buonarroti maturo. L’opera sappiamo fosse nella collezione medicea poi venduta ad un banchiere inglese e dalle bianche scogliere di Dover prese il volo in Russia tra le braccia della zarina Caterina II la Grande per essere poi collocata all’Ermitage di S. Pietroburgo.
Il ragazzo ci farà compagnia fino a marzo avvolto dalle luci da Oscar di Vittorio e Francesca Storaro che ne esaltano i volumi delle masse muscolari, creando effetti chiaroscurali con un semplice candeliere accesso posizionato dinanzi al marmo, quasi a illuminare meglio l’atto di estrarre quella maledetta spina o l’anima dolente dal corpo, chissà?