Moby Dick

 

Moby Dick

Ishmael, l’io narrante del celebre Moby Dick di Herman Melville, si salva – l’unico sopravvissuto del Pequod, la nave baleniera del capitano “Ahab” – aggrappato alla bara dell’arpioniere Queequeg mentre nave ed equipaggio vengono trascinati nel gorgo prodotto dal colpo mortale della balena bianca. Possiedo una edizione per ragazzi (Fratelli Fabbri Editori) con belle tavole a colori, anno 1955, a dimostrazione di quanto avessi subito a cuore la lettura. Ho scritto sovente di conservare in buone condizioni L’ultimo dei Mohicani di F. Cooper, scelto e acquistato all’età di otto anni. E di questa inesausta passione fanno testimonianza le pareti della mia stanza.                  

M’è venuta voglia di riprenderlo in mano, leggendo di Arturo Pérez-Reverte, di cui ho letto tutto quanto è stato pubblicato in Italia (scrittore spagnolo assai prolifico a cominciare dalle avventure del capitano Alatriste), una raccolta di brevi articoli sul mare e marinai e di pirati e vicende letterarie e non dal titolo Le barche si perdono a terra. In effetti ne avevo la copia ormai da una decina d’anni, ma la memoria mi sta difettando e, quindi, vale come prima lettura… E il Pequod ricorre sovente.                                                                      

Di Moby Dick s’è scritto e detto ben oltre il solo momento narrativo – e giustamente -, trattandosi di una grandiosa metafora intorno alla Natura, intesa quale benigna o matrigna, secondo la prospettiva con cui ci approcciamo – quell’essere bianca come colore di purezza incontaminata o equivalente del nulla e da cui e a cui soggiace la nostra esistenza. E la scena finale, l’epilogo, ove il simbolo della morte rende salva la vita s’innerva in quell’’essere per la morte’ di cui il pensare ‘nella terra della sera’ s’è tormentato fin dai suoi esordi quando, mettendosi in cammino, ha abbandonato là dove dominava il sacro l’oracolo il mito e la follia. Così un romanzo, edito per ragazzi ardenti ed entusiasti, a fianco del Corsaro Nero e della Tigre di Mompracem, di film come Ombre rosse o dell’onore riscattato ne Le quattro piume (e ognuno di noi può aggiungere letture e visioni su cui ha edificato e sogni e illusioni e molti inganni) ci conduce tenendoci con invisibile mano a interrogarci, a metterci all’ascolto, tentare di preservare gli ideali che furono cornice alla nostra inquieta ed errante giovinezza. Il sole tramonta, disco d’oro e rossa fiamma, su tetti e alberi che fanno da cornice e da confine alla finestra della mia stanza. Sul tavolo una lama di luce… Bando, però, a pensieri odorosi di resina antica e intrecciati di polverose ragnatele. Una amica, a me cara, da anni condivide solitarie passeggiate di prima mattina con un cane peloso e gioioso a cui ha messo nome Moby Dick. E sulla spiaggia deserta si rincorrono e si rotolano in abbraccio robusto. È il linguaggio del corpo che s’impone e intreccia un canto vittorioso.

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