Ancora uno spunto intorno all’amore verso la montagna, mentre i ‘miei’ amici un po’ cialtroni premono perché li riconosca e dia loro la parola. Scriveva Adriano Romualdi (ritrovo questo passaggio in Ricordo di Adriano, testimonianze raccolte dal padre Pino. Sono oramai cinquant’anni da quel funesto giorno d’agosto in cui, finito in un fosso, si dissanguava, goccia dopo goccia per tutta la notte, con lo sterzo conficcato nel fianco. E noi a chiederci quanto avrebbe potuto darci di più in una stagione in cui sentiamo oche nel cortile e non vediamo il volo alto e libero d’aquila): ‘In linguaggio astronomico il solstizio d’inverno è il giorno in cui il sole tocca il punto più basso dell’ellittica, quasi come se si allontanasse e sprofondasse nella notte.
All’epoca delle grandi glaciazioni, l’umanità di razza bianca rimasta sul continente europeo celebrava in questo giorno la morte e la resurrezione del sole. All’alba, dopo la notte più lunga dell’anno, fuochi a forma di ruota salutavano il sole invitto risorgente dall’abisso’. Egli paragonava questo evento con la condizione attuale vile e servile dell’Europa dopo il ’45 – Berlino in fiamme – e auspicava il momento della riscossa, l’inesorabile resurrezione… illuso, ma questa è altra storia, meglio la storia di tutti noi, a vario titolo sopravvissuti.
Fu suo tramite che imparammo a raccoglierci in luoghi isolati, aspri e in posizione elevata. Ho raccontato della casa di Walter a Monte Flavio, dei lupi lungo il percorso di ritorno con Maurizio e Tonino. Intorno al fuoco, attenti e raccolti e partecipi, per balzare lesti verso la cresta, rivolti ad Oriente il braccio levato e i primi raggi del sole ad illuminarci. Sui monti Lepini, presso un vecchio fontanile e un edificio in rovina.
Così la montagna mi offriva altro dono sacro. Ultima annotazione. Trovo nelle prime pagine del libro di Cassin: ‘Le canzoni di montagna hanno quella certa cadenza per cui, se si è un po’ stonati, soddisfano sempre’. E noi, in quel magico momento, tra il calore del rogo e il gelo della notte si cantava ed erano belli i nostri canti e belli eravamo noi stessi e puri erano i nostri cuori. Memori di quanto ammoniva il Capitano.
Corneliu Zelea Codreanu: ‘Per poter cantare occorre uno stato particolare dell’anima, un’armonia interiore… Sarà sempre il canto a stabilire il giusto criterio d’orientamento!’. Ed ancora: ‘Noi ci eravamo messi in marcia senza rimuginare in precedenza problemi, senza scervellarci notti intere su punti programmatici, senza accese discussioni durate ore e ore, senza profonde riflessioni filosofiche, senza riunioni di gruppo ecc… Proprio perché avevamo lasciato da parte tutto questo, l’unica possibilità di manifestare il nostro stato interiore era il canto, e cantavamo quei canti che esprimevano appieno i nostri sentimenti, quei canti che ci davano forza…’. La montagna e il canto.
Tentammo, anche qui illusi, perché il demone della (bassa) politica travolse molti di noi, carriera e poltrone, sporcò molti di noi con usura e il denaro facile e corrotto, ci impantanò fra belle frasi intelletto libri simili a galletti tronfi nel pollaio… (il che poi non è troppo vero per la ‘nostra’ comunità). Eppure, fra questi libri, avverto il passo antico degli scarponi il sudore aspro l’erba calpestata la roccia spigolosa il freddo dell’inverno e la fiamma che disegna ombre da intendere quali segni sacri di celate divinità. E mi dico, vi dico, illuso illusi, che forse non tutto s’è perduto, che qualcosa di noi si preserverà…
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