Morire per scegliere la Vita

 

Morire per scegliere la Vita

Oh, morte! Che noi crediamo tu ci insegua burlandoti delle nostre ore di “veglia”. Siamo noi, invece, gli stolti che ti corteggiamo sotto il sole, senza nemmeno il pudore di attendere la prima oscurità. Non sei il nostro aguzzino, ma il nostro segreto amante. Alle anime hai tolto il respiro, spegnendone le eleganti forme, immagini di realtà celesti. Corpi ormai deformi strisciano sulla faccia di questo mondo adorando e domandando solo ciò che è a loro connaturale: il brutto, il falso, l’ignobile, il compiacente mediocre. Dell’anima, è questa la morte: dell’anima di tutta l’umanità. Rimane allora il residuo animale che nutre lo stomaco e le membra di cibo, la psiche di eccitanti sentimenti, la mente di “pensieri angusti”. Se in questo orizzonte, che ha inghiottito i suoi confini, irrompe l’altra morte, o il suo fantasma, quella morte che pone fine all’esistenza biologica, ecco che allora il terrore diviene il nuovo sovrano. Ogni trono, ogni dominazione è sua e sua soltanto. Non è forse questa la scena a cui stiamo assistendo? Ciò che è inferiore pretende di dettar legge a ciò che è di ordine superiore, perché questo è rimasto senza forze, svuotato e inutile.

Rovesciare ciò che va tenuto diritto porta con sé grandi sciagure, ma questo “tipo d’uomo” non può avvedersene. Esse lo travolgeranno mentre crederà di essere ormai ad un passo dalla propria “illusoria liberazione”. Si deve allora riportare la figura in piedi e meditare attentamente ciò che la Storia ci sta dicendo con sgarbata insistenza. Non la morte corporale va temuta e scansata con ridicoli stratagemmi, ma il morire al mondo, e più ancora a “questo mondo” va cercato e raggiunto. Perché da questa morte tornerà la Vita che ha tragicamente salutato il nostro pianeta. L’oggi guarda al passato per prepararsi al futuro; e il futuro è il nuovo Avvento del Cristo – molto più misterioso del primo, perché in forma eterea – quello che completerà il ciclo di questa generazione di Adamo. Come non accorgersi che si ripete, anche se con diverse immagini, il tempo dell’attesa che duemila anni fa ha portato alla notte di Betlemme? Si sovrappongono i tempi, i ritmi e le sagome di quegli eventi. Fra le molte, ne ravviso una che mi pare davvero chiarificatrice per i nostri giorni: il racconto della circoncisione di Giovanni il Battista.

Zaccaria ed Elisabetta «otto giorni dopo vennero per circoncidere il bambino»: l’ottavo giorno è la domenica, il giorno in cui per l’effusione del sangue di Cristo, il mondo ha riavuto la Vita. È il passaggio dalla dimensione materiale a quella immateriale. Nella Scrittura, infatti, il sangue simboleggia l’anima. La resurrezione di Cristo è prefigurata nell’episodio di Caino e Abele, se lo leggiamo “in positivo”. Il primo crede di aver ucciso il fratello (la sua anima), ma è proprio in quell’istante che essa entra in pieno colloquio con Dio (il sangue di Abele che grida a Dio dalla terra). Il segno che riceverà Caino è poi garanzia di immortalità, del ricongiungimento alla sua dimensione animica, poiché corpo e anima sono legati indissolubilmente.

Gesù sulla croce attua la circoncisione di sé, ovvero quella dei cuori, come la descrive San Paolo, la sola capace di generare Vita. Ma nell’episodio di Giovanni Battista ciò che manca è la fiducia nella promessa divina: tutto è confinato nel legalismo, simboleggiato anche dalla lingua serrata di Zaccaria, ovvero dall’incapacità del popolo eletto di rivelare la Parola di Vita perché non è più in ascolto di essa. Luca va ancora più a fondo nel mistero e prosegue: «volevano chiamarlo con il nome di suo padre, Zaccaria», con un nome morto, un nome che guarda al passato. Elisabetta spezza però questa catena di morte e risponde: «No, si chiamerà Giovanni», manifestando che si stava realizzando un salto fra il tempo della profezia e quella dell’evento, del “fatto” cristiano. La nominazione non era di natura umana, ma divina, perché attraverso di essa si desse inizio alla ri-creazione del Mondo per mezzo del suo Signore. I presenti però insistono, ciechi per la loro incredulità e le ribattono: «Non c’è nessuno della tua parentela che si chiami con questo nome». Essi vogliono dare un nome della loro razza/parentela, un nome a loro misura, non a misura di profeta – e Giovanni è «più che un profeta» – così come al Messia “daranno un nome” della loro razza e pertanto non lo riconosceranno. Il loro sguardo è schiacciato sul passato e quindi non si accorge del futuro che irrompe nella potenza dello Spirito. Sono i consunti testimoni di un mondo che ha paura della divinità, che si è rifugiato nella sicurezza della legge, dimenticando che la Vita passa invece per il mistero del dialogo (dia-logos) con Dio. Vivono nell’orizzontalità animale, seppur coltivando con ossequio tutti i precetti della religione.

Il racconto poi si conclude con Zaccaria che conferma il nome Giovanni scrivendolo su di una tavoletta, che testimonia come il suo cammino per giungere al Cristo passi attraverso l’interrogazione delle Scritture, simboleggiate appunto dalla tavoletta. Ma è quello che è narrato prima, che più ci interessa, perché è figura di ciò che si sta ripetendo ora.

Siamo tutti una generazione che ha paura della chiamata alla Vita, e anche chi crede di servire la verità, nei fatti si dimostra ostinato nel cercare le risposte nel passato (il nome della propria razza), mentre lo Spirito soffia con forza per spingerci verso il futuro, un futuro di cambiamento e non di stasi. Guardate allora tutti i “bravi cristiani” che gridano contro i modernisti, gli impavidi reazionari “in piedi tra le rovine”! Eccoli, come i parenti increduli della scena di Giovanni: vogliono risposte a loro misura, che è nell’ordine della mediocrità – specialmente quella religiosa – vogliono curare i sintomi della malattia senza mai domandarsi dove essa origini e cosa ci voglia dire, vogliono, pretendono, o supplicano soluzioni che non chiedano mai una sola goccia di sangue. Eppure solo se come Abramo punterete il coltello alla gola del vostro amato Isacco (le personali convinzioni, i titoli, perfino le proprie qualità) potrete generare vita, vincendo la sterilità che vi ha colpiti. Il nostro piccolo sé deve morire, versando il sangue sopra l’assetata terra. Davvero ancora credete di poter salvare qualcosa del mostro che è divenuto questo mondo? Abbandonate dunque l’orgoglio di chi oggi pensa di salvare la propria vita, ma domani la perderà miseramente. Non è un salto nel vuoto quello che la Storia domanda, ma un salto di qualità, anzi un salto dalla quantità alla qualità: non multa sed multum. Avvicinate la lama alla carne, e che il liquido vermiglio scenda copioso: non temete! Si scrive col sangue, si crea col sangue, si dà la vita solo col sangue.

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