Un recente libro di Adriano Scianca presenta, a giudizio di chi scrive, un duplice merito. Il primo è di assestare un ulteriore colpo alla stanca e ormai superata tesi di Bobbio per la quale, com’è noto, il fascismo non ha prodotto una sua cultura e anzi si caratterizza per essere sostanzialmente “incultura”. Il secondo è quello di non confondere fascismo e Mussolini.
Il principale errore che si può commettere nell’analisi del Ventennio è infatti quello di identificare le affermazioni mussoliniane con l’ideologia o, in genere, con la cultura fascista; infatti, nell’Opera omnia si rintraccia con facilità una tesi e il suo opposto. Non si tratta di incoerenza, ma dell’atteggiamento tipicamente politico del Duce, pronto a sostenere le tesi che nelle determinate contingenze affrontate dal regime nel suo Ventennio presentavano un vantaggio politico o esprimevano l’esigenza di correggere o incoraggiare tendenze. Una piena e definitiva sintesi non venne operata, anche perché troppe e troppo diverse erano le istanze confluite nel fascismo – dal sindacalismo rivoluzionario, al socialismo, al nazionalismo per arrivare persino all’anarchismo – e un po’ perché un’ideologia definitiva avrebbe costituito quella camicia di Nesso che Mussolini, e questo senza incertezze e tentennamenti, aveva sempre rifiutato.
Un esempio di questo lavoro progressivo viene fornito dalle diverse correnti e tendenze che costituiscono l’attenzione con la quale il capo del fascismo guardò sempre, fin dagli anni giovanili, alla filosofia. Il libro compie un’analisi certo empatica, ma non agiografica, delle influenze che Mussolini ricevette dalla lettura, attenta e mai superficiale, di Nietzsche, come di Gentile, di Sorel, di Spengler, di Machiavelli e, naturalmente, di Marx. Per citare solo le influenze più importanti. Il tutto analizzato e metabolizzato non per fini “scientifici” o di mera curiosità intellettuale, ma per cogliere da ogni filosofo quegli aspetti che dovevano dare alla prassi politica una direzione costruttiva dell’uomo nuovo fascista. Un “relativismo” non scettico, ma funzionale a lasciare al fascismo il carattere di una rivoluzione permanente che doveva scolpire, nel corpo come nell’anima, un popolo che acquisisse piena consapevolezza del suo destino storico e fosse di conseguenza preparato ai compiti che questo avrebbe comportato.
Nei suoi discorsi, Mussolini utilizza il pensiero dei filosofi per spiegare concetti e situazioni politiche, a significare una lettura volta a portare la filosofia dentro le categorie del politico. Non un Mussolini filosofo, ma, come scrive l’autore, un Mussolini “attraversato” dalla filosofia; un attraversamento che fa dell’attivismo fascista un problema filosofico da studiare per avere dell’epoca più bestemmiata e amata della nostra storia un concetto più chiaro e onesto.