Mussolini – Matteotti, il compromesso storico del ’24

Di Franco Scalzo


Il 16 marzo – il giorno del rapimento di Aldo Moro e il 10 giugno, quello di Matteotti – coincidono con l’onomastico e col compleanno di tutti coloro che, senza alcuna distinzione né di colore né di età, si sono coalizzati nell’offrire all’inclito e al volgo un’interpretazione del tutto fantasiosa di quegli eventi: a cominciare dagli esponenti del mondo accademico che hanno per gran parte il culo di marmo, per l’odioso malvezzo di disertare gli archivi – dove mandano a lavorare i loro famigli – per poi finire con la categoria dei politici che ci hanno intinto il pane, incuranti di sapere dove passasse il discrimine tra le verità di comodo e quelle che impongono una faticosa riflessione su chi eravamo e chi siamo.


Intanto va detto che, a raschiare sotto la pellicola dei luoghi comuni, si scoprono delle inquietanti consonanze tra i due delitti, essendo stati consumati entrambi per scongiurare la sterzata che avrebbe prodotto uno spettacolare ribaltamento dello status quo.


Qui, nel 78, con l’uccisione di Moro si é tagliata irrevocabilmente la strada al Compromesso Storico.


Lì, fu sabotato il tentativo da parte di Mussolini di far entrare i socialisti nella maggioranza di Governo: un artifizio strategico che avrebbe determinato l’isolamento dei comunisti, ma avrebbe altresi’ nuociuto agli interessi della Corona, all’ombra della quale imperversavano gli affari, preferibilmente quelli più sporchi, e trafficavano i fautori del liberismo integrale, pronti a mettere un’ipoteca sui treni, sulle poste, sulle assicurazioni e su quant’altro potesse appartenere alla collettività e allo Stato.


Nel mio ultimo libro sul caso Matteotti – dei tre che ho scritto portando ogni volta un pò più avanti il fronte della ricerca – ho dato notizia della scoperta di un documento eccezionale – il carteggio tra Curzio Suckert (Malaparte), che aveva ricevuto da Mussolini l’incarico di verificare la disponibilità dei socialisti a condividere col PNF la guida del Paese, ed Alceste De Ambris, che era stato individuato dallo scrittore quale campo base per tale indagine.


Il sondaggio non ebbe successo.


Tuttavia, ai fini di una corretta valutazione dello scenario che include l’assassinio di Matteotti, sarei incerto se dare più importanza alla prova provata dell’intenzione da parte di Mussolini di consorziarsi coi socialisti (e, quindi, della sua insistenza nel dire che lui col delitto non c’entrava nulla, e che esso era stato, invece, concepito per danneggiarlo) o alla confessione, resa da Malaparte ad un altro corrispondente, di aver tratto sollievo dal fallimento della sua ‘impresa’ perché non ne condivideva l’obiettivo: direi, metà e metà.


A quanti ancora s’industriano nel cercare di spiegare con dei sofismi che si era trattato di un delitto preterintenzionale (con la puerile intenzione di attenuare le responsabilità di un Governo che non era ancora un regime) e a quanti, al contrario, amano credere, e far credere, che l’uccisione di Matteotti fosse stata premeditata dai ‘fascisti cattivi’, non solo oppongo la facile obiezione che in un caso e nell’altro il risultato sarebbe stato lo stesso (il sabotaggio della componente ‘sociale e statalista’ del PNF che sarebbe riemersa, nuda e cruda, solo ai tempi della RSI) e che quindi tutta questa ginnastica rivela l’incapacità, sia a destra che a sinistra, di ‘leggere’ in modo corretto la Storia, ma faccio anche presente come la narrazione dell’affare Matteotti non abbia minimamente risentito, né sul versante dell’antifascismo militante, né su quello della revisione storiografia (l’una e l’altra accomunate da un pregiudizio letale) della vera identità di coloro che furono sorpresi dai riflettori mentre il segretario del PSU veniva pugnalato a morte dagli uomini della ‘Ceka’,


Faccio l’esempio di Pippo Naldi, un faccendiere, molto vicino agli ambienti di Corte, che rispunterà – dall’esilio dorato in terra di Francia – come capo dell’ufficio – stampa del Governo del Sud ma faccio anche quello di Malaparte (di mestiere, camaleonte) che, nell’autunno del ’23, era a Parigi in compagnia di Dumini e venne sospettato di avere istigato con lui l’anarchico Bonomini a togliere di mezzo il delegato del Fascio, Bonservizi, che era un ‘aficionado’ del duce.


Tutto ciò avvenne a poche settimane dal’agguato del 10 giugno che avrebbe alterato per tutto questo tempo la percezione non solo dell’episodio, ma di tutte le condizioni strutturali che gli fanno da sfondo: non le ‘baruffe chiozzotte’ di goldoniana memoria, ancorché insozzate di sangue, ma una delle tante tragedie provocate in quel secolo e in quello successivo – cioé, il nostro – dal confronto, su scala enormemente più grande, tra il libero mercato (l’habitat elettivo degli speculatori e dei parassiti) e il mercato ‘chiuso’, sottoposto all’autorità dello Stato.


Prigionieri di un complicato gioco di specchi – peraltro tributario della loro stessa ignoranza – tutti gli studiosi, indistintamente di destra e di sinistra, che si sono occupati del caso Matteotti dopo che io lo avevo riscoperto sotto altra luce nel lontano 1985, avrebbero potuto sottrarsi all’errore – che ne ha prodotto mille altri per clonazione – già soltanto col definire ‘mussoliniano’, anziché ‘fascista’ il governo che si era appena insediato, col sostegno di una tetragona maggioranza, e se non avesse preso piede, sia a destra che a sinistra, il malvezzo di anticipare alle elezioni del ’24 la nascita del ‘regime’ che sarebbe sorto invece agli inizi dell’anno appresso, come probabile risposta al disordine indotto da un partito, il PNF, che sotto il ‘brand’ dell’anticomunismo, aveva riunito le progenie più disparate, dai repubblicani ai monarchici, dai cattolici ai mangiapreti, da quelli che volevano andare avanti con la Rivoluzione a quelli convinti di essersi messi la Rivoluzione alle spalle, di essere già arrivati: un pericoloso coacervo di persone e di cose, qualcosa di molto simile al movimento dei ‘5 Stelle’, se non fosse che lì, a differenza dei giorni nostri, c’erano un progetto politico, molto meno opaco, e un uomo capace di realizzarlo.


L’errore – nel cercare di restituire la giusta collocazione al caso Matteotti – é stato inoltre potenziato dall’insistenza nel volerlo trattare (non diversamente da un altro episodio, l’uccisione dei fratelli Rosselli, su cui ho rinvenuto, in un’altra ricerca, le impronte digitali del Quirinale) come se il PNF e il regime non fossero limitati da una difficile coesistenza con la Corona, e come se tale situazione, riverberando su ogni minimo aspetto dell’esistenza in vita della nostra Nazione, non potesse essere pregiudizievole, finanche a posteriori, per l’affermazione della verità storica.


Il fatto, insomma, che sia stato ampiamente sottovalutata – o addirittura, esclusa, come é sempre avvenuto, con l’unica eccezione del sottoscritto – la possibilità che il delitto Matteotti fosse stato preordinato da soggetti tesserati per il PNF, in combutta con forze esterne al partito, allo scopo di rovesciare Mussolini e di evitare che egli realizzasse il ‘compromesso storico’ coi socialisti, inviso alla Corona e agli ambienti reazionari del Paese, non solo ha impedito agli studiosi di scorgere nell’assassinio di Bonservizi a Parigi un segnale eloquente della crisi che sarebbe dovuta divenire esiziale all’indomani del 10 giugno del ’24 (e ciò nonostante, nel commentare la notizia pervenutagli dalla capitale francese, il duce avesse detto dichiarato, con una circonlocuzione sibillina, che tutto questo era accaduto ‘perché ci siamo messi a litigare tra di noi’), ma gli ha anche impedito di chiedersi quanto fascismo, ad esempio, scorresse nelle vene del faccendiere Carlo Bazzi (uno dei personaggi minori di questa storia) che invocava la ‘contromarcia’ dalle pagine del ‘Nuovo Paese’, anche a costo di provocare più morti di quanti ne erano stati addebitati, appena due anni prima, alla Marcia delle camicie nere verso il potere.


D’altro canto – per rimanere in tema di abbagli bipartisan – non si capisce neppure cosa esoneri gli ‘esperti’ dal porsi delle altre domande su come – a parte la seducente ambivalenza di un Curzio Suckert – potrebbero aver influito su quel delitto la strenua opposizione al ‘duce’ fatta in quel periodo da D’Annunzio, confinato nell’eremo di Gardone, o certi atteggiamenti di Dumini il ‘fascista’, che, a Derna, nella primavera dedl ’41, corse incontro agli Inglesi, le braccia aperte come le ali di un albatro nel pieno di una tempesta, e che a guerra finita fu scoperto a Piacenza mentre, sotto falso nome, faceva da interprete e da autista alle truppe d’occupazione americane. Oppure, ancora, quello strano individuo in calzoni corti, chiamato Otto Thieschald, che entrava e usciva di soppiatto dal palcoscenico, apparentemente un ‘povero diavolo’, il cui nome però riapparve sulle rubriche di frontiera nel ’32 e nel ’38 accanto all’ordine di arrestarlo se vi si fosse avventurato perché classificato come agente di spionaggio, senza, peraltro, che si puntualizzasse a favore di chi.


Avverto un certo disagio nel sentirmi costretto a ripetere una desolante banalità, che se si inizia un’inchiesta, un ragionamento, dalla posizione sbagliata, tutti gli sviluppi che ne conseguono sono fatalmente sbagliati, anche se, nello specifico, ci si é mezza una pezza con la magnifica presunzione di aver trovato la quadra e il Passaggio a Nord-Ovest sentenziando – non si capisce su quale base – che la squadraccia di Dumini si sarebbe accontentata di fare la ‘bua’ a Matteotti se per disgrazia, nella colluttazione, una lima appuntita non gli fosse penetrata, uccidendolo, dentro un polmone.


Il tentativo ‘tutto italiano e italiota’, di conciliare il dogma sostenuto dalle Sinistre, dell’indole criminale del fascismo, con l’origine colposa di quel delitto (soluzione che sembra essere stata gettonata anche a destra, tra coloro che del caso Matteotti hanno sentito parlare, solo di striscio), tuttavia, non tiene conto né del rischio corso dagli aggressori di essere riconosciuti e dall’aggredito, e quindi della loro preoccupazione di scongiurarlo, né dell’insussistente possibilità che il duce, ordinando l’assassinio di Matteotti, volesse punirlo per aver tirato fuori l’affare dei petroli, che era sulla bocca di tutti, o avere insinuato che alle ultime elezioni politiche c’erano stati dei brogli – un’eventualità indimostrabile – perché ciò equivaleva a compiere un gesto impolitico, a fare harakiri, cosa per la quale non era assolutamente portato.


Il punto focale di tutta la questione é altrove, nel carteggio Suckert – De Ambris, semmai non bastasse far premio su ciò che diceva Mussolini a propria discolpa, che il cadavere di Matteotti gli era stato gettato tra i piedi, ‘per farlo barcollare e cadere’, ma questa nuova prospettiva, che io ho aperto due anni or sono col mio terzo libro oscurato dal Covid, crea dei problemi perché fa ruotare di 180 gradi l’asse della ‘vulgata’; perché propone delle analogie con la vicenda Moro, all’insegna, mutatis mutandis, di una disarmante continuità; perché in tutti e due i casi – se ne troverà la conferma tra qualche anno – la ricerca storica si é sviluppata, gobba e storta, a causa di un clamoroso pregiudizio che ha fatto da pietra angolare, lì escludendo, per partito preso, che Matteotti e Mussolini fossero rimasti vittime dello stesso complotto, e, qui, dando per scontato che le BR abbiano avuto, contrariamente alle finte evidenze, un qualche ruolo nel sequestro e nell’uccisione del presidente democristiano.

Però, capisco certe resistenze mentali: non é così facile.

Torna in alto