Note familiari sulla Grande Guerra
Il centenario della traslazione del Milite Ignoto all’Altare della Patria, il 4 novembre 1921, mi invoglia ad alcune note di atmosfera familiare. La Grande Guerra portò in quasi ogni casa il lutto di una o più perdite. Soprattutto in quel mondo contadino, ad esempio in Sicilia, dove i contadini furono chiamati in massa alle armi e si potette sostituirli con le donne i vecchi i fanciulli. Gli operai servivano all’industria bellica. La mia famiglia fu esente perché mio nonno paterno era avanti negli anni, mio zio Carlo fu esonerato perché affetto da pleurite e mio padre, quando l’Italia entrò in guerra, aveva dieci anni.
Ne conservava, però, memoria viva e la rinnovava sovente quando a tavola raccontava a me e alle mie sorelle gli accadimenti storici di cui era cultore appassionato. Un sentimento di Patria che m’è rimasto dentro, nonostante fosse il suo orizzonte di stampo monarchico e culturalmente legato al Risorgimento ove si privilegiava la figura del Cavour e si diffidava del Mazzini. Così la guerra del ’15-’18 intesa quale completamento dell’Unità nazionale e non quale insorgere di istanze rivoluzionarie, quelle che avrebbero dominato la prima metà del Novecento. Quelle di cui mi sono nutrito e che mi appartengono.
Raccontava mio padre che in cucina, dove erano soliti prendere i pasti, mio nonno aveva appesa alla parete una cartina del Regno d’Italia e dei territori in cui le nostre truppe erano impegnate – ascoltando il bollettino alla radio (ancora un bene piccolo borghese) – e a lui il compito di collocare bandierine colorate secondo l’andamento del fronte.
Fedele alla Casa Savoia – era nato a Torino, a palazzo Carignano, il padre maestro di scherma del sovrano, e ricordava d’aver visto lo scontro nel parlamento subalpino tra Cavour e Garibaldi all’atto di cessione di Nizza ai francesi, poi Firenze, negli anni di trasferimento della capitale e, infine, a Roma. Funzionario del Tesoro – investì tutti i risparmi in azioni per il contributo allo sforzo bellico e si ritrovò alla fine del conflitto orgoglioso e rovinato.
Di lui conservo una foto di un vecchio signore in una poltroncina di vimini nel giardino della nostra villetta a Riccione, unico bene che gli era rimasto e che fu il luogo della mia infanzia adolescenza e giovinezza (poco, a dire il vero, che imparai presto a girare per l’Europa). Non ho, dunque, memorie in armi, in grigioverde, ma la capacità narrante di mio padre di quelle armi e di quella divisa farne epica descrizione trarne commozione e morale.
Una nazione si forma anche facendo sì che la sua storia diventi mito testimonianza e esempio – il fante e l’ardito e il marinaio e il pilota nella fantasia di un bambino non erano poi troppo dissimili dai tigrotti di Mompracem o dal Corsaro Nero.
E, forse, lo sono tuttora. Quando a Carlo Michelstaedter, giovane filosofo goriziano (e mi sono laureato con una tesi sul suo suicidio) delle signore chiesero una poesia sulla Patria da pubblicare – e s’aspettavano dei versi traboccanti sentimenti di italianità – siamo nel 1910 e Gorizia era sotto il dominio austro-ungarico – egli rispose: ‘Non è la patria – il comodo giaciglio – per la cura e la noia e la stanchezza; – ma nel suo petto, ma pel suo periglio – chi ne voglia parlar – deve crearla’… Le trincee del Carso il monte Grappa le acque del Piave raccontano, a chi voglia ascoltare e intendere, di uomini che erano massa e divennero Popolo di un paese che volle riconoscersi in Nazione. Musica di sentimenti, avrebbe scritto Marinetti. E noi con lui in note familiari, una storia minima certo, ma che ci ha reso ostili e proscritti in un’Italia tornata ad essere paese.
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