Al Lido di Venezia la settima arte rinasce fenice dalle ceneri del lockdown, il cinema ferito al cuore risorge sul red carpet della 77a edizione della più antica Mostra internazionale d’arte cinematografica del mondo (avez-vous compris Asterix?) correva infatti l’anno 1932, Volpi, Maraini, de Feo gli ostetrici del 1° Festival dalla placenta della Biennale.
Leone d’oro 2020 al film Nomadland di Chloé Zhao (U.S.A.), pseudonimo di Zhào Tìng, cinese purosangue di nascita (1982) trapiantatasi negli States per vocazione al movie, tre lungometraggi nel suo CV, un quarto, The Eternals, in uscita nell’anno che verrà. Quarta donna regista (se non erro) a vincere l’ambito premio lagunare, con un’opera radicata nell’humus di quell’America dai paesaggi indomiti ( ricordi Mare d’erba di Elia Kazan?), orizzonti sconfinati dove mamma natura avvolge di sé la solitudine dell’uomo, purezza dell’essenza spogliata d’ogni crosta, io-lei e avanguardia, il furgone dove Fern vive la nuova condizione scelta di houseless, nomade negli scenari magici del West, andare oltre contro la staticità suicida di un paese del Nevada divenuto fantasma (quanti ce ne sono in Italia!)
Riflessione: all’improvviso la vita scricchiola, un crack ti precipita a terra, le stampelle cedono di schianto come la morte accidentale di un padre patriarca in Songs my brothers taught me. Che fare? Conquistarsi briciole nella città lasciando la riserva indiana di Pine Ridge, ( famosa per la ribellione dei nativi americani contro il Governo centrale), recinto dei bianchi ai Sioux Lakota, la povera minestra del quotidiano, precarietà dell’emarginazione, continuare ad arrangiarsi o partire con l’amata cercando una vita simil-borghese. John resterà accanto a Jashaun sua sorella minore, cavalli, praterie mozzafiato, i seni delle sue montagne, coito del cuore con la terra natia.
L’impalpabilità della vita è ceramica fragile che all’improvviso può andare in mille pezzi, si rinnova nel chiostro sacro della Natura oppure muore, solitudine mistica del pellegrino, la tartaruga si muove, esplora stupita piano, piano portandosi la casa, avanza o si richiude nel guscio, finale di The Rider-il sogno di un cowboy dove Brady, sempre nel South Dakota, caduto da cavallo in un rodeo crocifisso da gravi danni cerebrali coltiva irrequieto e testardo il sogno di tornare in sella, cimentarsi, sfidare la morte, ma la chimera svanirà sul ciglio del possibile abisso, la mano che lo afferra è negli occhi del padre e della sorella.
La vita cade, difficile incollarne i pezzi, storia di Fern ex insegnante (magistralmente interpretata da Frances McDormand), rimasta vedova in una ghost city dove il motore dell’industria s’è fermato, scegliere di restare equivarrebbe a quel morire lento di fabbriche, scuole, case abbandonate, strade, persino ricordi. Le certezze del sogno americano si dissolvono, bisogna reinventarsi la vita daccapo proprio quando essaa volge al tramonto, sarebbe tempo di coglierne i frutti mentre, al contrario, urge il coraggio di tuffarsi ancora perché non si può restare in ozio ai bordi della piscina. Nuotare in una condizione sociale border line, quella del nomadismo, esistenza precaria mordi e fuggi sul lavoro (pure Amazon, ,che importa), povertà è liberazione, umiltà di una figlia nel tornare in grembo a madre natura, la scoperta di Abele nel tessuto strappato di Caino.
Così il viaggio che sia sul furgone di Fern, su un’automobile in On the road di Jack Kerouac o su due chopper in Easy Rider, è il canto dello spirito ribelle di cellule impazzite, cancro benigno della società in progress, steccano nel coro del global sing, perché avvertono il prurito che la morte è nell’essere intonati fin dalle prove.
Nell’infinita infamia di quello che un tempo chiamavamo con disprezzo sistema, non c’è più spazio per l’autentica libertà ridotta a scelta fra le cose nelle quali l’uomo scioglie quella sua immagine e somiglianza a Dio, noi no noi. On the road anche oggi nel 2020 e poi domani, sulla strada ma per andare dove? Per andare oltre, la corsa non si finisce mai, futurismo folle, irriverente, nostalgia di una generazione in contro cammino, indiana per indole e vocazione e dentro un magico urlo finale come Kerouac.