Pellegrinaggio alla tomba di Nietzsche

 

Pellegrinaggio alla tomba di Nietzsche

‘Meine Seele ist das Lied eines Liebenden’, così, a titolo, sulla copertina del cd con i brani composti da Friedrich Nietzsche per voce soprano e pianoforte. E, all’interno del foglio illustrativo, si legge ancora: ‘Nacht ist es: Nun erst erwachen alle Lieder der Liebenden. Und auch meine Seele ist das Lied eines Liebenden’ (‘E’ notte: ora soltanto si destano tutte le canzoni degli innamorati. E anche l’anima mia è una can-zone d’innamorato’, Il canto notturno dal Così parlò Zarathustra). E’ tutto ciò che mi rimane con le immagini le emozioni il cielo azzurro pallido la piccola chiesa e, al suo esterno, la tomba, grande lastra di pietra nera, del filosofo e dei familiari. Roecken, ove nacque il 15 ottobre 1844, modeste casette ordinate, i vasi fioriti alle finestre, poco più di cento abitanti, non distante da Lipsia.                                                                         

Una sorta di pellegrino, mi sento. Senza idoli da adorare o chiese in cui pregare. Ep-pure, in questo luogo così scarno e nudo, avverto quanto la sua ombra, simile ad un dinosauro estinto da millenni e, al contempo, incombente, si sia proiettata e proietti quella direzione, ardua e terribile, la sola che conduce alla ‘grandezza’… E non parlo del Nietzsche della ‘grande politica’, tanto caro ad Adriano Romualdi e all’amico Ro-dolfo, del Nietzsche del superuomo e della volontà di potenza (con i fraintendimenti e le interpretazioni contrapposte e dubbie), del Nietzsche che ognuno volle dalla sua parte – il bastone da passeggio con cui la sorella Elisabeth volle omaggiare il Fuehrer o La vergine delle rocce del Vate o il ’68 che inneggiava in piazza a Marx Engels Lenin e lo leggeva, in privato, nella traduzione (così poco ‘poetica’ e con strumentali omis-sioni) di Giorgio Colli e Mazzino Montinari.                                                                                  

‘Sento in me non so che inappagato, inappagabile, che anela di farsi sentire. E’ in me una brama d’amore, che parla essa stessa il linguaggio dell’amore’, così prosegue Il canto notturno, qui, in edizione 1937, Casa Editrice Apuana, acquistata in una libre-ria a Cavana, Trieste, a compensare la medesima andata perduta in modo tragico e di cui vi racconto. Sì, mi va ricordare perchè è proprio di Nietzsche l’invito a scrivere con il sangue e scoprire come esso sia Spirito. Qualcuno accomuna il medesimo suo colore intenso di rosso al sentimento d’amore. Amore e Morte poi si accompagnano come nel coito – fragilissimo attimo in cui il corpo s’inebria e si estingue.                                       

Ho scritto sovente come i miei primi libri li acquistassi sulle bancarelle di Piazza Fon-tanella Borghese, risparmiando sulle cinquanta lire, il costo del biglietto del filobus, per andare al liceo. I Proscritti di Ernst von Salomon, Hanno fucilato un poeta (poe-sie dal carcere di Fresnes di Robert Brasillach) e il Così parlò Zarathustra nella prima edizione, appunto, della Casa Editrice Apuana. In copertina bianca e rigida e, al cen-tro, una figura di vecchio capelluto e scheletrico con in mano un rametto fronzuto e, nell’altra, una lampada ad emanare un sottile fil di fumo. Inizio anni ’60… (I saccenti, i filologi aridi e ottusi (Nietzsche lo fu in principio ma presto volò alto e altrove dalla sua gabbia), storcono il naso, vili e facili all’ironia, sulla sua traduzione. Tant’è…).            

Giovanni Ferraro è un giovane riccioluto e robusto parco di parole di modesta estra-zione sociale e modesta istruzione (confesso una certa mia arroganza da intellettua-le piccolo borghese), frequenta il circolo della FAI di via Baccina e, quando si litiga, se ne viene con noi in via del Governo Vecchio. E’ curioso, poco prigioniero di schemi e pregiudizi ideologici, un libertario d’animo oltre che da barricata (nulla a che vedere con centri sociali, volgari e servili, in cui si coltiva una miscela di rancori oscenità esi-bizionismo e taciti e loschi interessi e protezioni). Non ricordo come si venne a parla-re di Nietzsche. Mi chiese il Così parlò Zarathustra. Gli prestai la mia copia.                       

12 dicembre ’69. L’iter è la Questura le celle d’isolamento gli anni delle sbarre alla fi-nestra e di chiavistelli alla porta (non vi renderò noiosa la narrazione). Tra illazioni e accuse aule da Corte d’Assise e mediatici tribunali del popolo, stampa a dar benzina sul fuoco, il faticoso aprirsi come fra reticolati e trincee nemiche il passo verso l’inse-gnamento, tento di evitare il naufragio. Perdo molti dei vecchi amici, i rossi e diversi fra i neri; perdo l’Also sprach Zarathustra…                                                                                   

 Apro il giornale, in data 25 maggio 1982. Un giovane con la fidanzata s’è attardato a mangiare una pizza a Trastevere, raggiunge la macchina, armeggia allo sportello, gli si avvicinano due poliziotti, parte una raffica di proiettili, cade a terra agonizza alcuni giorni in ospedale muore per sopraggiunta setticimia. Nessuno pagherà per il suo o-micidio (la legge Reale continua ad impazzare). Quel giovane era Giovanni Ferraro. E, al suo funerale – la famiglia volle il rito religioso -, fuori della chiesa, bandiere rosse e nere pugni chiusi e a cantare Addio, Lugano bella.                                                                       

Così l’opera di Nietzsche si tinge di rosso sangue, dando nobiltà all’inchiostro (nono-stante avesse in un aforisma sentenziato come ‘il sangue non è un buon testimone’), a somiglianza di quanto racconta Drieu la Rochelle ne La commedia di Charleroi do-ve esso è riposto nello zaino durante la battaglia. La visita a Roecken, là dove si ebbe inizio e la conclusione dell’esistenza terrena, si rende dunque fisionomia legittima di un pellegrinaggio.

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