Pensiero forte e pensiero unico
La nuova dislocazione dei processi produttivi e del potere mondiale che la globalizzazione ha implicato si sono ormai rivelati nei loro effetti più devastanti.
La crisi sta condizionando la nostra quotidianità e non vediamo gli effetti positivi che erano stati veicolati agli albori del fenomeno: la liberalizzazione e la crescita degli scambi commerciali e finanziari avrebbero dovuto stimolare – ci avevano detto – un afflusso degli investimenti verso le aree svantaggiate favorendo una riduzione del divario economico fra i paesi sviluppati e quelli in via di sviluppo. É successo, invece, l’esatto contrario. L’unico divario che si è ridotto è quello geografico finendo per riversare confusamente gli abitanti dei secondi nei paesi dei primi deflagrando nella situazione di generale precarietà, conflitto e decadenza che stiamo vivendo.
La globalizzazione è divenuta un fatto più che “discutibile” assumendo i contorni di un fenomeno unilaterale volto a favorire un pensiero unico, un’omologazione forzata a modelli di consumo, stili di vita e sistemi culturali nuovi per tutti e imposti da un’elite mondiale.
La geopolitica della “guerra fredda” non si è risolta nello “scontro di civiltà” preconizzato da Samuel Huntington ma in un ben più funesto conflitto tra una nuova idea di ordine mondiale e un’indistinta massa cosmopolita di individui privati, prima di tutto, degli strumenti per capire l’importanza della posta in gioco: la perdita di identità, l’uniformità degli stili di vita, l’appiattimento delle culture, l’imposizione delle forme tecnologiche, l’omologazione delle forme giuridiche, la fine della politica.
Si sta configurando una “società globale del rischio” nella quale le barriere protettive sono infrante e i nidi distrutti, dove la politica non è più “protezione” e “riduzione della paura” ma, nel migliore dei casi, allocazione autoritaria dei rischi.
Le conseguenze umane della globalizzazione, per dirla con Zygmunt Bauman, si sono rivelate come gli obiettivi assunti, in tempi non sospetti, dalle nuove élite mondialiste: insicurezza, disorientamento e angoscia. Emozioni assegnate sia a chi parte sia a chi è messo nella condizione obbligata di dover accogliere nel peggiore dei modi. Tutto è volto ad una recisione delle radici culturali: non c’è più Olimpia, Atene è stata sostituita da Francoforte e il deserto culturale, la socializzazione della cultura, sono divenute sempre più funzionali alle necessità di una tecnica economica distante ormai anni luce dai postulati classici dell’economia politica.
La destoricizzazione della cultura e la fine dello Stato nazionale hanno velocizzato questo progetto: il “concetto” ha sostituito le cose e i rapporti concreti, la “persona” l’individuo, la “personalità” le sue caratteristiche, lo “Stato” l’equilibrio precario delle forze collettive, la “Chiesa” e la “religione” hanno surrogato ogni interiorità che non si disponga sul piano di una morale convenzionale.
Il disegno parte da lontano: la liquidazione dell’intera cultura di tradizione umanistica e l’interruzione della traditio – termine che identifica da sempre la trasmissione, il passaggio del testimone da una generazione all’altra – hanno posto le basi, come scriveva Eric Voegelin, per la nascita di una società massificata nella quale ciò che viene a mancare è proprio l’individuo, lasciato in balìa di un pensiero vano e impotente che si traduce, quando va bene, in retorica.
Quel che serve, invece, è proprio il contrario: un pensiero forte da cui ripartire per porre un argine all’ordine prestabilito impostoci come sola garanzia di vita societaria.