Per Speculum il mondo sentito

 

Per Speculum il mondo sentito

Uno dei punti che gli occidentalisti non riescono a capire è che le identità vivono al di fuori delle teste e scorrono nel sangue quando sono quotidiane, continue, tangibili. Io mi sento italiano perché convivo in un ambiente in cui la stragrande maggioranza di persone è italiano, parliamo e pensiamo pertanto nella medesima lingua, abito orizzonti italiani, condivisi con altri. Ho esperienza del tipico paesino ingrandito italiano, ho esperienza della moralità mediana e della virtù mediana italiana. Urbanesimo, cibo, lingua, religiosità sono reiterate in comune costantemente, e diventano ben altro.

Un materialista non può che pensare così, egli deve coerentemente rifiutare ciò che non trova disponibile nel mondo con la propria ragione. E se con la ragione indaghiamo il mondo attorno, troviamo la patria, e dopo averla trovata nella quotidianità, sentirla. Il sentimento di una patria è questo: la continua ripresentazione in me della mia pratica della comunità, fino (e soprattutto) nelle cose più spicciole. C’è un modo di ridere italiano, un modo di maneggiare il denaro italiano, un modo di disporre gli oggetti. E così funziona per ogni regione, paese, casa. Le identità sono concentriche.

Il motivo per cui non si può essere cosmopoliti, ma solo credere di esserlo è lo stesso motivo per il quale io non posso sentirmi “Occidentale”. Non si pratica l’Occidente, non vivo l’America o l’Australia. La tassonomia delle identità mi rende più simile un texano rispetto ad un cinese di Xi’an, ma oltre una certa soglia non sento alcuna risonanza. Il suo destino non è il mio. La stessa conformazione mentale che permette ad un siciliano od un veneto di dire, senza mentire, che loro non si sentono italiani (perché hanno esperito ed hanno praticato solo la loro terra, o soprattutto quella) permette a me di disinteressami in senso patico, non sentire alcun legame con uno statunitense, e già poco con un norvegese. Come la coscienza di classe non può sorgere se non da una vita condotta in comune e non è qualcosa che possa essere calato con operazioni intellettuali, così il sentimento di patria può indubbiamente essere potenziato da una narrazione, ma mai creato ex nihilo. L’analisi di Hobsbawn sull’ingegneria narrativa che nel XIX Secolo avrebbe inventato la tradizione e il nazionalismo è giusta nei termini, ma non riconducibile al solo piano volontario: la patria e l’appartenenza sono ipostasi della quotidianità vissuta.

Esistono poi identità che i popoli sentono, e io non sento come individuo. Ma servono mediazioni simboliche, dispositivi narrativi. Perché io senta il legame tra Italia e Egitto, o Italia e Persia, tra Roma e la civiltà cinese mi servono studi, simboli, percorsi privilegiati. Raramente posso “sentirla”, e mai in modo collettivo.

Quindi tutti i discorsi, i proclami occidentalisti (come quelli cosmopoliti: la struttura mentale è identica) sono destinati a provocare irritazioni cutanee in chi se li vede castrati e sbadigli negli altri. Il mondo, per usare una metafora paolina, fuori da certi limiti, si dà “per speculum” (le culture, le ideologie, i ponti culturali, ecc) e non “In Aenigma” cioè di per sé e in sé, sentito.

Se il mondo fosse “sentito”, non dovrebbe essere studiato. Se il mondo non fosse un posto complicato, in cui per ragionare bisogna approntare una lingua, non avremmo inventato la grammatica della geopolitica, della scienza politica, la ierostoria, ecc. Ci saremmo espressi con linguaggi analogici, senza soglie di comprensione, in modo non-mediato.

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