Sono 100.187 le salme dei caduti nella Prima Guerra mondiale, raccolte nel più grande sacrario d’Italia, Redipuglia sul versante occidentale di monte Sei Busi, siamo sul Carso, Friuli Venezia Giulia, provincia della Gorizia italiana (Nova Gorica purtroppo è slovena), là il Regio Esercito e la k.u.k. Armeé diedero vita, su un teatro di pietra, alle 12 battaglie dell’Isonzo tra il maggio 1915 e l’ottobre-novembre 1917, l’ultima fu la tragica disfatta di Caporetto.
“Morirono a migliaia / E dei migliori, tra loro, / Per una vecchia cagna sdentata, / Per una civiltà rattoppata” avrebbe scritto Pound nel poema Hugh Selwyn Mauberley del 1920 a commento del conflitto, no, morirono sì per obbedienza ad una cartolina, alcuni per sfida, avventura, adrenalina di volontari futuristi in bicicletta, ma nutriti dalla fede di scolpire un prigione “non finito”, la Patria.
Furono certamente eroi di età diverse, diversa provenienza, analfabeti o un po’ istruiti, li immaginiamo in quei fossati bestemmiare in dialetto sotto la pioggia d’acqua e di proiettili, riflettere sulla cicca consumata con lo spillo metafora della propria vita, stare di guardia con gli occhi filo trincea, masticare sbobbe, farsi scrivere una lettera alla famiglia, graffiare di speranze e paure i sogni riposando all’erta, nordisti e sudisti nella stessa buca, finalmente uguali nell’uniforme grigio-verde gabbia d’onore di mille sentimenti col salvavita in mano modello Carcano 91.
No gli eroi non sono affatto tutti giovani e belli, sono i normali, non somigliano ai Dioscuri, s’arrangiano a portare a casa la pelle schivando proiettili e granate ed imparando a uccidere, perché la guerra non è una processione ad Assisi, un colpo spegne l’insignificanza della vita, allora gorgoglia dall’animo l’irrazionale, vincere abbracciando la follia del coraggio contro quel richiamo insistente, continuo della carne alla sua conservazione, gli eroi normali hanno gettato il cuore oltre gli ostacoli tutti quanti, dando alle loro piccole vite quotidiane l’altezza dei giganti.
Scriveva un soldato a moglie e fratello: “ per me questo giorno come pure per i miei compagni deve essere un giorno di inferno pero coraggio se andiamo contro il barbaro nemico e speriamo di poter portare una gloriosa vittoria e così poter liberare i nostri cari fratelli delle terre in redente dal barbaro nemico.[…] e te Achille mio caro fratello unito alla mia sposa insegna a miei bambini a crescerli buoni e insegnale a lavorare e amare la sua patria come io lamavo e baciali per me che io forse non li vedrò più”.
Il 18 settembre 1938, con una cerimonia austera, Mussolini inaugurava questo immenso colombario di pietra carsica, percorrendo la via eroica, omaggiando le salme dei generali e del Duca D’Aosta, poi salì i gradoni quasi passando in rivista quelle migliaia di PRESENTE schierati, allineati a mo’ d’ immenso battaglione, fin su in alto, gradone dopo gradone, ai sacelli dei corpi senza un nome. Nessun discorso a quegli invitti, solo picchetti d’onore e il mormorio d’un canto accarezzavano la sacralità del silenzio unica voce di oltre centomila eroi.
Ebbene quel giorno certamente l’attenzione del Duce cadde sul sepolcro, al primo gradone, dell’unica donna, una soltanto, seppellita nel Sacrario, la crocerossina romana Margherita Kaiser Parodi partita nel 1915, appena diciottenne, col grado di tenente, volontaria con madre e sorella per l’ospedale di Cividale del Friuli a curare le ferite dei nostri militari, vide quella che un tempo chiamavamo con orgoglio la Vittoria, poi il flagello della febbre spagnola toccò la sua giovane vita. Un’eroina normale come i tanti, insignita di medaglia di bronzo, con la motivazione: “Era rimasta al suo posto mentre il nemico bombardava la zona dov’era situato l’ospedale cui era addetta”. A lei fu dedicata questa frase a ragione della sua sepoltura tra migliaia di soldati: “A noi, tra bende, fosti di carità l’ancella, morte fra noi ti colse. “Resta con noi sorella”.
PRESENTE.