Di Lorenzo Merlo
Considerazioni sulla concezione oggettiva e relazionale della realtà.
Due mondi
Diversamente dal pensiero ordinario, che si articola intorno al perno della realtà permanente, oggettiva e fuori da noi, è disponibile una prospettiva che la prevede invece scaturire in corrispondenza della nostra presenza.
Oggettiva, permanente e fuori da noi non riguardano la cosiddetta materia e la sua fisicità, ma la implicita pretesa che essa sia identica per tutti.
Per vedere il limitato spettro della concezione – ma sarebbe opportuno dire, della idolatria – oggettiva della realtà, è utile spostare l’attenzione sul modo in cui ci relazioniamo ad essa. Questo è sempre relativo al sentimento e alle emozioni, che via via ci attraversano, modulate da esigenze e morali, convenzioni, concezioni. Perturbati o sereni, la medesima realtà subisce descrizioni differenti e sempre legittime. Tranne che per gli scientisti, individui presi dal sortilegio della verità possibile attraverso la logica, la razionalità, il metodo.
Se la prima prospettiva può essere detta oggettiva, la seconda può essere chiamata relazionale. Una è considerata identica per tutti, l’altra, relativa a noi, è sempre diversa, (salvo nel caso di contesti intimi condivisi). Una ci viene tramandata dalla cultura razional-scientista-materialista, l’altra è da scoprire a mezzo delle necessarie prese di coscienza delle dinamiche energetico-immateriali che fluttuano in tutte le relazioni e costituiscono una mente invisibile ma necessariamente rispettata da chi concorre a crearla.
Sentieri
In merito alla realtà che scaturisce dal momento della nostra presenza in poi, ovvero dalla interpretazione che i sentimenti ci impongono, torna utile occuparsi di comunicazione, non a caso corpus relazionale per eccellenza. È qui utile però ricordare prima, che i sentimenti e le emozioni, che agiscono nel nostro universo personale creando sinapsi e ritorcendosi su retoriche come una pallina da flipper al meglio delle sue scorribande, sono i veri inseminatori dei giudizi che esprimiamo per definire e descrivere la realtà. Ciò corrisponde a un’azione di investitura di cui siamo ignari. Un epilogo, quest’ultimo che ci lascia nella convinzione che quanto vediamo in essa, corrisponda a autentici suoi attributi e caratteristiche, sulla cui origine noi non avremmo nulla a che vedere. Così ci dice e insegna la cultura scientista che ci ha cresciuti.
Il sentiero che seguiamo è il nostro sentiero. Cioè corrisponde in tutto e per tutto alla nostra biografia, anche quando, secondo la stupida idolatria della coerenza, ci è in contraddizione. Una rappresentazione fisica ci è offerta da un esempio, che sembra immaginario, ma è concreto. Chiunque di noi, davanti a uno spettro di opzioni, tende a scegliere quella che gli corrisponde. Infatti, ciò che facciamo, ovvero scegliamo, al crocicchio di una città sconosciuta per avviarci a visitarla, ce lo rivela. Come del resto, ogni altra scelta, vitanaturaldurante.
Le parole che utilizziamo nei nostri discorsi si susseguono secondo un flusso unico, che ci appare idoneo a raccontare la visione – spesso inconsapevole – che fa da orizzonte nella nostra interiorità. Michel Foucault (1926-1984) chiamava tutto ciò la verità è nel discorso. Tutte le accezioni semantiche a cui non badiamo, e i diversi significati che la nostra descrizione ha in sé non ci sono presenti, non fanno parte del sentiero che stiamo seguendo, sono, infatti corpus del flipper del nostro interlocutore. Tutta la semiotica è ridotta e compressa entro la convinzione che una buona dialettica implichi comunicazione univoca, oggettiva. Così ci insegna la cultura razional-illuminista che ci ha cresciuti (1).
Sentiero unico
Come sappiamo, non è così. Ogni comunicazione – salvo che a parità di motivazione, competenza e condivisione assoluta del linguaggio, cioè a semantica e semiotica condivise – contiene l’equivoco, contiene flipper occulti. Un epilogo che sempre sorprende nella concezione oggettiva della realtà, ma ordinario in quella relazionale, dove i sentieri sono uno per ognuno. La prima è suggellata dall’espressione ovvio no? Nel pronunciarla alziamo un muro nei confronti della nostra evoluzione. La seconda dall’emancipazione nei confronti di una presupposta verità definitiva. Un passo che comporta la consapevolezza che la domanda non è se è vero o no? Ma in che termini lo è?
L’idea dell’ovvio è un culmine puro della concezione oggettiva della realtà. Esso allude alla garanzia che ogni descrizione che affermiamo sia assolutamente riconosciuta per come noi la intendiamo, e provochi la medesima visione che abbiamo descritto e comporti che le medesime parole e sue accezioni sarebbero impiegate anche dal nostro interlocutore. Con queste premesse, si ritiene che l’ovvio possa esistere realmente. Tanto che, come le medesime premesse, ci si ritiene in diritto di vita e di morte cognitiva e morale nei confronti dell’interlocutore a cui sarebbe sfuggito l’ovvio.
L’ovvio esiste nel flusso del nostro sentiero, entro la nostra visione. Attribuirlo alla realtà è il mostruoso figlio bicefalo della logica. Da un lato vincola il nostro pensare e giudicare, dall’altro genera l’assurdità della verità univoca. Il mistero della vita è un suo prodotto. Senza la prevaricazione della logica, il mistero scompare, in quanto la domanda non sorge, in quanto il mistero siamo noi.
E poi, dire ovvio, solitamente pronunciato con una certa sicumera, con volontà di umiliazione, ha in sé il potere ahrimanico di mantenerci in uno stato di sterilità nei confronti della nostra stessa evoluzione spirituale. Un fatto interessante, visto che dalla modalità relazionale, restare dominati dall’idea del diritto all’ovvio, non è che un cancello che impedisce l’accesso alla conoscenza. Interessante, anche perché esso dà l’impressione a chi lo professa, di esserne in possesso certo. Ovvio no?
Svista
La concezione oggettiva della realtà, per essere vera, richiede una svista. Anche se piuttosto madornale, essa è passata inosservata per lungo tempo e nonostante le segnalazioni che da altrettanto lungo tempo, la conoscenza sapienziale ci aveva offerto in dote di saggezza. Essa è presto detta: non teneva in conto che ogni descrizione del reale era necessariamente relativa a chi la esprimeva. Significa, come già detto, che pur attribuendo alla realtà certi attributi, contemporaneamente li considerava propri dell’oggetto che stava osservando. La dimensione fenomenologica, ovvero quella che si astiene dal credere oggettivo il proprio giudizio sul reale, è sconosciuta da un lato e creduta professata dall’altro.
Di come l’osservatore del mondo generi la descrizione dell’osservazione, la concezione oggettiva sta alla larga. E come potrebbe assumerne il significato senza perire, senza suicidare la propria biografia, senza perdere il sentiero sicuro che la riportava sempre a casa?
Come chi?
La questione che siamo creatori di realtà, che fa tanto inorridire i devoti del pensiero scientista, in pratica quasi tutti, ha, tra gli altri, il supporto di Martin Heidegger. Il quale, nel suo Contributi alla filosofia (Dall’evento) (2), ci parla dell’evento. Con questo termine, il filosofo tedesco intende il momento in cui insorge in noi il pensiero con il quale descriviamo la realtà che, da quell’istante inavvertito, è realmente così come la raccontiamo. Avvedersi di quel momento è possibile, ma ad una condizione. Che si prenda coscienza dell’assolutismo della concezione oggettiva e se ne metta in discussione la sua veridicità cosiddetta scientifica e si prendano in esame le dinamiche scaturenti dal binomio osservato-osservatore.
Martin Heidegger (1889-1976) non è il solo ad aver colto il momento in cui la realtà prende forma e verità, o si informa di noi. Oltre alle solite tradizioni favoleggianti-ciarlatanesche, come a molti allineati e coperti all’alza bandiera quotidiano dell’oggettività piace definirle, anche Massimo Scaligero (1906-1980) – uno facilmente, come del resto anche Heidegger, liquidato come fascista, dunque come di valore zero – ci ha parlato dell’insorgenza della realtà sempre e solo confacente al pensiero che la precede di quel tanto che basta per passarci inosservato.
Ma è la magia, la scienza suprema, a essere da sempre consapevole della natura della realtà e dei flussi energetico-relazionali che via via la informano secondo esigenza. È nel mondo magico che diveniamo idonei a riconoscere nel nostro osservare la corruzione delle ideologie, la contaminazione dell’interesse personale, la delega a luoghi comuni, l’abiura di se stessi, la virulenza del pensiero unico, il limite e la funzione di quello oggettivo.
Se si volesse trovare il punto in cui il pensiero politico di destra prende forma, lo si potrebbe trovare proprio nella consapevolezza del momento di insorgenza della realtà. È lì che ci si trova giocoforza costretti a riconoscere chi ne dispone e chi no, costretti a ricusare l’idea democratica. Ma anche a riconoscere a sinistra la dittatura della democrazia e, a destra, l’inaccettabile repressione dei non confacenti da parte della storpiatura a carico della relativa vulgata. Un’entità quest’ultima, per sua natura costretta entro le ideologie, entro i suoi è ovvio no?
Pure chi?
Pure Carl Gustav Jung (1875-1961) gioca come titolare nella partita in corso. Il suo inconscio collettivo, i relativi archetipi che lo popolano, ben rappresentano le ragioni che al crocicchio della città sconosciuta, risalgono in noi a spingerci di qui o di là, convincendoci a mani basse che stiamo facendo la cosa giusta, che stiamo rispettando credenze e valori. Al pari di colui che, al medesimo crocicchio per le medesime ragioni, sceglie diversamente da noi. Dall’inconscio collettivo e dalla risonanza con certi archetipi ognuno pesca il necessario al proprio essere, al proprio foucoltiano discorso.
Ma c’è pure altro. Anche se non piacerà a molti, esattamente a coloro che vorranno credere io voglia parlare di fisica quantistica. Noo! Parlo della realtà magica, o relazionale, che la fisica dei quanti ben figura. In essa, è la sola presenza dell’osservatore dell’esperimento a determinare il comportamento imprevedibile (se non probabilisticamente) della particella. Significa, come detto, che solo l’osservatore fa scaturire una certa realtà. Ma c’è pure l’entanglement, concetto quantistico che allude alla simultaneità e all’identicità della reazione e del comportamento di due parti con precedenti legami, poi separate nel tempo e nello spazio comunemente intesi. Che è esattamente ciò che avviene con emozioni e sentimenti. Le prime azzerano la distanza spazio temporale e ci fanno rivivere esattamente ciò che è stato nel passato, riportando nel presente le medesime sensazioni, sentimenti e memoria di allora. I secondi sono legami che si beffano e scavalcano senza difficoltà alcuna il cosiddetto spazio-tempo e la cosiddetta materia. La realtà stessa è quindi un’emozione. Come tutte le emozioni ci appare attendibile, vera, rispettabile e soprattutto convincente.
Chi l’avrebbe detto?
Seguendo la via che ci porta sulla grande montagna dell’inconscio collettivo, che ci guida attraverso le fessure degli archetipi, che ci svela come il potere del successo e l’impotenza dell’insuccesso per raggiungerla, non risiedano negli eventi ma in noi, si può anche passare dal “cratere dove gorgoglia il tempo”(3). Ma anche dove gorgoglia l’entanglement, l’evento, il pensiero e la magia. In quel caso allora anche la memoria – quella cosa che per certuni è fatta di dati immagazzinati nel cervello, che credevamo appunto in noi – in realtà si informa man mano che riviviamo una certa emozione che dimostra così il suo potere creativo e alogico. Assistere alla ricreazione della memoria, permette di riconoscere l’autoreferenzialità del tempo, della sua durata e dello spazio, la sua circolarità e la sua estensione e contrazione, quindi la sua presenza e assenza. Permette di riconoscere l’arbitrarietà dell’oggettività. O più opportunamente l’emozione dell’oggettività. Nonché la vacuità dei saperi cognitivi, scambiati per conoscenza.
Fine escursione
Dunque la realtà si informerebbe al momento della sua concezione. Alla stregua dell’uovo e della gallina, tentare con strumenti logici di sciogliere il dilemma di chi è venuto prima, è misconoscere l’intero che solo il fideismo logico-razionale, non solo pensa di avere il necessario per venirne a capo, ma non si avvede proprio che è proprio esso a generare il dilemma. Dilemma del tutto mancante nella dimensione relazionale che non può concepire alcunché senza la relazione tra parti, quindi senza i flussi energetici che, come una terza parte, la attraversano, l’avvolgono e la dominano generando in noi scelte, comportamenti, verità e realtà. Terza parte che Gregory Bateson (1904-1980) aveva chiamato mente (4, 5).
C’è una domanda…
C’è però una domanda inevasa. Perché la storia dà valore alla materia e alla scienza e all’idea del mondo oggettivo che ne scaturisce? Nonostante il milione di rubli che vale (basta dollari, hanno rotto), la risposta è semplice, ma, ancora una volta, tanto datata quanto tralasciata. Per via di un’emozione. Quella in cui l’uomo si vede proprietario di se stesso, separato dal prossimo, in conflitto e competizione con esso. Un’emozione di arroganza e onnipotenza a mezzo del potere, che tutta la sudditanza assume a modello di riferimento, mantenendosi così entro la bolla, la mente, la superstizione di quella falsa verità oggettiva. Perdizione la chiamano i cattolici, o anche fuori dalla grazia di Dio.
Nota
– «…l’irruzione dell’Illuminismo nella storia del pensiero ed il conseguente giacobinismo nella versione politico-terroristica di quell’ideologia secondo la quale la storia cominciava dall’acquisizione di un “razionalismo ottriato”, concesso cioè dalle classi dirigenti del tempo, i Philosophes rivoluzionari, atei e “immoralisti”, al popolo che di quella parodia di libertà fu vittima inconsapevole all’inizio per poi assumerla come forma di vita». https://www.inchiostronero.it/il-pensiero-unico-uccide-i-popoli-attraverso-limbecillita/
– Martin Heidegger, Contributi alla filosofia (Dall’evento), Milano, Adelphi, 2007
– In volo
Lascia lente le briglie del tuo ippogrifo, o Astolfo,
e sfrena il tuo volo dove più ferve l’opera dell’uomo.
Però non ingannarmi con false immagini
ma lascia che io veda la verità
e possa poi toccare il giusto.
Da qui, messere, si domina la valle
ciò che si vede, è.
Ma se l’imago è scarna al vostro occhio
scendiamo a rimirarla da più in basso
e planeremo in un galoppo alato
entro il cratere ove gorgoglia il tempo.
Banco del mutuo soccorso, Banco del mutuo soccorso, 1972
Musica: Vittorio Nocenzi
Testo: Francesco Di Giacomo, Vittorio Nocenzi
– Gregory Bateson, Verso un’ecologia della mente, Milano, 1977, Adelphi
– Gregory Bateson, Mente e natura, Milano, 1984, Adelphi