Remember WOODSTOCK

 

Remember WOODSTOCK

Siamo a Ferragosto del ’69, un piccolo centro rurale, Bethel, nello Stato di N.Y., 4.000 anime e quattro laghi a tiro, schizzò alle cronache mondane con la “Tre giorni di pace e musica” (poi quattro) passata al mito di concerto di Woodstock. Dopo trafelata contrattazione quasi mezzo milione di giovani si “appratarono” nella fattoria di certo Max Yasgur,  farmer d’ origine russa, che affittò il terreno a Michael Lang & Partners per la cifra di 75.000 dollari. L’idea dei quattro produttori era di replicare la Summer love di S. Francisco del ’67 quando migliaia di figli della beat generation sciamarono per le vie della città californiana incollati dal motto “Peace and love”. Erano sbocciati i figli dei fiori, gli hippies, fascinati dalla rock music, il free love, l’amore ambientale, il misticismo orientale condito da dosi di Lysergsäurediethylamid, LSD, sostanza psichedelica amplificatrice della coscienza.

Woodstock fu la più gigantesca manifestazione rock della generazione anni ‘60, una fiondata scagliata dalla East Coast con tale forza da rimbalzare in tutto il mondo parruccone, fermandosi al muro di Berlino ma lanciandogli un eco. La rivoluzione hippy calava sulla sclerotica vita borghese, spezzando, senza violenza, la middle class yankee, puritanesimo, costumi, arte, moda, linguaggi, modelli di vita razional-normali o freschi di contestazione hard (il ’68), innescando la rivolta radicale di Abele, simbolo di pace, nonviolence, nomadismo, armonia edenica uomo-Natura.

In quel Woodstock- tre giorni di pace, amore e musica ( Titolo del documentario premio Oscar ’71) non si registrarono incidenti o violenze, quel mezzo milione di ragazzi, venuti d’ogni dove, in moto, a piedi, nei mitici pulmini Bulli, s’ accamparono alla bene e meglio in quell’enorme prato del caseificio di Yasgur, ascoltando la loro musica, dal folk al rock psichedelico, danzando a mo’ di dervisci o meglio dei nativi americani, musica strumento di divinazione, nettare nei muscoli della coscienza sollevata in volo, liberazione, magari sulle ali della marijuana.  Sul palco si esibirono artisti già famosi, Joan Baez, la Band, Joe Cocker, i Cannet Head (tagliati dal documentario), i Creedence Clearwater Revival, Jimi Hendrix, Santana, The Who e tanti altri pur con le defezioni di nomi patinati, dal menestrello Bob Dylan (motivi familiari), ai Beatles freschi di divorzio, ai Rolling Stones in lutto per la morte del chitarrista Brian Jones, e poi ai Doors, ai Led Zeppelin, ai Procol Harum, ec.

We shall overcome canto pacifista di Joan Baez, scritto dall’eco- comunista Pete Seeger, contro l’impegno miliare U.S.A. in Vietnam, tracciava la speranza: Cammineremo mano nella mano […]/Un giorno avremo ancora la pace […]/ Noi non abbiamo paura/Un giorno tutto sarà superato”, un manifesto sullo stile hippy, fermezza non violenta contro un sistema che frulla il mondo, omogenizzato nel pensiero unico di stampo illuminista.

L’irrazionale gridò ballando, fumando, facendo l’amore: libertà! Dioniso cavalcò l’ebrezza di varcare le soglie del niduccio borghese, scivolò via nell’aria sollevata dalle ali della musica con l’estasi d’un accartocciato spinello, il coperchio della pentola a pressione era saltato, l’Io vitale si ricuciva addosso la persa dignità sua e d’una generazione contro il Moloch programmato a trasmutare sangue in denaro. “Ho visto le menti migliori della mia generazione distrutte dalla pazzia, affamate nude isteriche” scriveva Allen Ginsberg nell’Urlo già nel ’55, schizofrenia del capitalismo, macchina scellerata, alienante di Tempi moderni di Charlot, piega le coscienze alla sacra triade laica: lavoro- ricchezza-successo, una slot machine che inocula patologia da Foxhound a caccia della volpe, fiuto, corsa, latrati nel bosco assecondando il vizio del padrone.

Dopo mezzo secolo, ci chiediamo, cos’è rimasto di quello sciame nella prateria di Yasgur a settanta Km da Woodstock; il farmer dovette vendere il caseificio e andar via, si spegnerà in Florida nel’73. Molti di quei gruppi rock e folk sono oramai vinili impolverati archiviati da collezionisti, chi patetico ancora s’esibisce, vincendo età, rughe, reumatismi, lo fa per quella volpe di cui sopra o per scaldarsi alla memoria del cuore d’essere stato lì un qualcuno. Quella generazione di ragazze e ragazzi ha varcato i settant’anni, apparentemente ha perso la guerra pacifista cercando un’armonia edenica tra gli uomini e tra uomini e natura. L’ebrezza dei baccanti è evaporata sciogliendosi nel grigio quotidiano, i bastoncini d’incenso fumiganti sono spenti, il misticismo orientale è forse solo un panciuto Budai, i fiori variopinti sono appassiti sui vestiti, qualcuno fa On the Road per ricordare i vecchi tempi e una canna per allargare la memoria, d’altronde The Times they are a- changin’ (i tempi stanno cambiando) cantava Bob Dylan e cambieranno sempre.

Però le ossa rimangono, Woodstock è una calda leggenda che buca i colori (bianco, nero, rosso), affascina, quel movimento hippy, sbeffeggiato dai media, catalogato nella sinistra americana, non sposò la lotta di classe, la rivolta armata operaia, non sollevò barricate lanciando pietre e  molotov, aggredendo a sprangate il Palazzo d’inverno, se ne restò coerente nell’alveo gandhiano della non violenza, quella che, per i comunisti duri e puri nostrani, non si coniugava né si coniuga alla guerra chirurgica contro il male assoluto: il fascismo e chi lo indossa.

A proposito scriveva polemicamente Marco Pannella nella Prefazione al libro Underground a pugno chiuso (1973) di Andrea Valcarenghi, tentativo di sincretismo tra le lotte sociali sessantottine e il vento hippy americano, Siete, sei “antifascista”, antifascista della linea Parri-Sofri, lungo la quale si snoda da vent’anni la litania della gente-bene della nostra politica. Noi non lo siamo.” Di anni ora ne sono trascorsi altri 46, niente è cambiato, però anche sulla rive droit occorre ripensare l’innata ribellione con contenuti nuovi, forti, acchiappa generazione per modelli e stile.

Allora, in aperta eresia con gli stereotipi dentro la cosiddetta destra anti, ma in giacca, cravatta, cellulare e manualetto in tasca del viver ben ordinato e borghese, noi pensiamo che il metodo più efficace per “fare la rivoluzione” messianica, sorella di Godot, sia tagliare gli stralli corrosi dei vecchi ponti sposando tesi, armonie animali del popolo di Woodstock, il non essere di questo mondo senza romiti amplessi con se stessi ma con una comunità gioiosa e giocosa in cammino. L’arma della nonviolence ci affascina quanto quel pepe di anarchismo che ci vuole contro non a fianco di… Amiamo i giovani di Hong Kong in corteo testardo (dietro c’è il satanasso americano? Chi se ne frega se lottano per non essere incastrati in un reggimento di formiche), lo studente Don Chisciotte nudo d’armi davanti ai carri armati in piazza Tienanmen, i monaci tibetani torce umane, Jan Palach li imitò in Piazza S. Venceslao. Resilienza con fermezza, coraggio, disobbedienza non violenta e musica, tanta musica per schernire, ridendo, i padroni del tempio.

“La fantasia distruggerà il potere e una risata vi seppellirà!” è un vecchio motto anarchico che ci affascina e fu chiusura a un mio comizio eretico targato M.S.I.

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