Rivoluzione nel restauro?


 

Rivoluzione nel restauro?

Le perle cadono nel canyon della pantapandemia inghiottitoio dell’informazione quotidiana, bollettini profezie Covid nient’altro, si sa poi il bene fa poco notizia, non sfruculia nel torbido di paure panico cronaca nera, così il Paese archivia in fretta anche la festa “untuosa” degli Europei di calcio, le medaglie dei nostri atleti nelle Olimpiadi del vuoto e coglie solo come un balbettio nei titoli di coda la notizia che l’UNESCO ha inserito nella Lista del Patrimonio mondiale dell’Umanità “Padova Urbs Picta”, con la Cappella degli Scrovegni e i cicli pittorici del Trecento, i portici di Bologna, la Grassa, la Dotta, la Rossa (solo per via dei mattoni) e in più Montecatini Terme nella  “Great SPAs of Europe” fra le grandi città termali d’Europa. Sale così a 57 il numero dei Siti italiani presenti nella World Heritage List, al momento è primato davanti alla Cina, medaglia d’oro da baciare, mostrarne il luccichio con meritato orgoglio ma soprattutto da difendere mantenendo il podio o no?

Gira ab illo tempore una leggenda narcisista dell’Italia stivalone gonfio del 50-60 addirittura  70% di tutti i beni culturali del mondo, lasciamo perdere è una boutade un tantino vanitosa, impossibile fare una stima scientifica di tali ricchezze partendo già dal discriminante su cosa sia o meno  un bene culturale, lo sono ad esempio per l’UNESCO la Ivrea di Olivetti, le monumentali Dolomiti, il federiciano Castel del Monte, le colline del prosecco di Conegliano e Valdobbiadene, dall’urbanistica industriale alla viticoltura, passando per giganti calcarei e architettura.

Sul Corrierone di via Solferino  Milena Gabanelli scriveva in un pezzo del ‘19:”Siamo il Paese più bello del mondo: è un fatto” Ma quanto ci costa il primato  d’essere i più gettonati fra i 167 Paesi con un marchio UNESCO? E snocciolava grafici, numeri esborsi e finanziamenti per concludere l’accurata analisi con: “l’UNESCO certifica che siamo belli, ma alla tutela concreta poi, gli Stati devono pensarci da sé”. Non solo.

Sponsorizzare la candidatura di un sito materiale o non per ottenerne la promozione nella World Heritage List ha un costo assai cospicuo, per Ivrea la puntata è stata di 452.624 €, ancor di più per le colline venete del prosecco, logicamente il prezzo di questo inseguir mostrine è un extra rispetto alle salate quote ordinarie che lo Stato versa a questa costola pacifista dell’inutile ONU.

In concreto la bellezza è un mercato con le sue regole, le sue arcigne commissioni, i paludati burocrati ed esperti, Angelica non è bella se non lancia la borsa rigonfia di zecchini, rispondono i soloni,  è un investimento, pensa al volano del turismo, la metteremo dentro una teca, in un museo con soffici led ad magnificarne le muliebri forme, scontate le file di formiche orientali incolonnate a rimirarla, lì è il ritorno diretto e l’indiretto indotto, le locuste ristorazione, alberghi, bar, guide, gadget quant’altro, tutto vero, perciò io non concordo con i ma… contabili, meglio  il tricolore in cima alla vetta che il ristagno nella trincea dei bilanci. La bellezza ha un costo, lo sapeva bene il padovano Enrico degli Scrovegni quando commissionò a Giotto gli affreschi della Cappella di famiglia arricchitasi co’ la malvagia usura di papà Rinaldo sistemato al calduccio dell’Inferno dal contemporaneo Dante.

La fionda che lanciamo da qui ha due sassi, il primo di sfida  alla manutenzione del nostro immenso patrimonio culturale, servono soldi non chiacchiere e nastrini, i dati del Bilancio statale attestano uno stanziamento per “Attività culturali “ dello 0.3%, quintultimi in Europa a braccetto col Portogallo, l’odiata Ungheria di Orbán è in vetta con l’1.3% (Fonte Osservatorio CPI sui dati 2018).

L’altro è la filosofia del restauro sclerotizzata nella dialettica tra “teoria della conservazione”, “restauro critico”, “restauro di ripristino”, in sintesi tra interventi filologici sui manufatti mantenendone l’integrità assoluta, di materia e stile o azioni di ripristino di parti mancanti per restituirne la forma originaria nel reciproco rispetto tra l’archè e le sue protesi.

Un esempio solo all’apparenza banale: restauro un’auto d’epoca per poterla utilizzare pur nei limiti oggettivi dell’età, se le sue ruote dormono in garage, il corpo celato da un telo sollevato solo per farla rimirare ai curiosi, l’oggetto non ha più senso, è fuori del suo contesto, la strada, della sua funzione progettuale, è una “cosa” da lucidare, una salma imbalsamata, da museo.

Restituire funzionalità alla nostra cornucopia di variegati gioielli è la sfida culturale, economica  da raccogliere e vincere, una rivoluzione per un Paese prigioniero delle ragnatele, sorvegliato speciale dalle lenti delle Soprintendenze, ma, per genetica fortuna, vulcano di idee, proposte innovative,  perciò questa medaglia d’oro serva da rincorsa per il salto superando l’asticella posta sopra i ruderi.

Qualcosa par  si muova, l’anfiteatro Flavio, icona di Roma, riavrà la sua arena, evviva, ma i gretti passatisti si preoccupano di non potere più ammirare i muri sbocconcellati dei cunicoli sottostanti, oh certo eran proprio quelli che andavano a vedere i nostri progenitori assiepati sugli spalti!

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