Salgo da Claudio. Gli amici siedono formando una tavolata che trova compimento – è il compleanno di Sandro – levando il bicchiere e cantando inni libertari. Forse per-ché scegliemmo essere dalla parte dei vinti (in E venne Valle Giulia ebbi a scrivere che mi sento un cattivo dalla parte dei buoni e non viceversa). Del resto i miei amici ideali sono il Don Chisciotte Cyrano de Bergerac il Corsaro Nero e, di carne ossa e sangue, i testimoni di una disfatta eppure mai domi. Coloro che mi insegnarono a ricercare uno stile, ribelle (preparatevi a comprare e leggere l’ultimo libro di cui mi faccio vanto in combutta con Emanuele Casalena), uno stile che va ben oltre idee e simboli e arroganti e fallaci progetti contrapposizioni vuote. E’ ricercare uno stile che fa la differenza.
Possedevo una raccolta di canti libertari, nostalgia del LP, dove campeggiava Addio a Lugano, composta da Pietro Gori nel 1894, quando il governo elvetico, su pressione di quello francese, decretò l’espulsione degli anarchici là rifugiatisi. L’anno in cui, so-litario vendicatore, il giovane Sante Caserio aveva affondato il pugnale nel petto del presidente Sadi Carnot mentre percorreva in carrozza le vie di Lione. L’Inno della ri-volta dell’avvocato Luigi Molinari – ‘Nel fosco fin del secolo morente…’ – che venne condannato a 23 anni di carcere quale istigatore dei moti nella Lunigiana e graziato l’anno successivo su pressione e intervento di migliaia di firme, fra cui quelle dell’on. Imbriani e Luigi Zanardelli, già Ministro di Giustizia, per l’enormità della pena senza che vi fosse prova alcuna, anzi, della sua partecipazione. Ed altri canti celebri fino ad arrivare – e a Cristiano il compito di cantarla – a La locomotiva di Guccini…
Non solo perché rifiutammo il piattume borghese con tutti i suoi falsi corollari, le ipocrisie, una certa viltà di fondo per misurare la nostra forza, parafrasando una af-fermazione di Drieu la Rochelle, ci sentiamo tuttora – pur se spelacchiati e sdentati mentre in gioventù avvertivamo essere animali da preda – coinvolti e commossi ove si spezza ogni forma di catene. E’ perché, nella complessità della storia, il rosso e il nero delle bandiere anarchiche si intrecciano (nella RSI divennero i colori di quel ‘ritorno alle origini’ che Brasillach seppe ben definire ‘il Fascismo immenso e rosso’) con i BL18 per le strade polverose camicia nera ‘pugnal fra i denti, le bombe a mano’ irridenti e spavaldi, arditi a sognare un’Italia altra.
Libertari nei diritti, fascisti nei doveri. Anarco-fascismo. E, qui, certo tanto e di più ci sarebbe da scrivere. In prima persona dato che trattasi di definizione in cui mi rico-nosco. Raccontava sempre Brasillach come, studente al prestigioso collegio Luigi XIV di Parigi, avesse una certa propensione per l’anarchia e leggesse volentieri L’Anatra incatenata, rivista appunto satirica del pensiero libertario. Così come, lo riporta nel suo bel libro Romanticismo fascista Paul Sérant, nei giorni prossimi all’arresto del-l’autore de I sette colori e la condanna a morte, avesse incontrato un giovane della Milizia deluso dal maresciallo Pétain e l’esperienza di Vichy che, sfogandosi, avesse concluso ‘In fondo noi siamo degli anarco-fascisti’… Affermazione questa molto a lui cara e a me, ovviamente.
E che dire di Céline o di Berto Ricci? Sulla scrivania di Mussolini, direttore dell’Avanti di Milano una copia de L’Unico di Max Stirner… Tanto mi basta.