Scrivere un romanzo

 

Scrivere un romanzo

Se avessi dalla mia l’anagrafe e le energie e la dovuta quiete forse mi dedicherei a scrivere un romanzo – è una ideuzza che ho coltivato da lunga data (dei racconti e un libro a quattro zampe, titolo La guerra è finita, non sono forse altro che il segno di un progetto che non ha trovato compimento). Un romanzo ove la trama si snoda e i personaggi vengono gestiti con abile e sapiente dose, affascinanti sul modello dei grandi letterati russi – Tolstoj e Dostoevskij – dominando la parola. Quel farsi storia compiuta, vincere la cronologia tenendo in pugno il presente e il suo ieri e il domani a venire. E il mondo e il quotidiano e l’agire fra le cose e, al contempo, il vorticare di emozioni sentimenti io interiore con i suoi intimi segreti. Chi voglia addentrarsi nella ampiezza della parola e farsene artefice – ritagliarsi uno spazio simile al boscaiolo e la radura in un bosco ove ogni sentiero può essere ‘interrotto’ – deve darsi un riposo una sosta abbeverarsi lungo il cammino alla fonte sorgiva. L’invito. Urlo disperato e fiero, se si vuole, ‘solo la bellezza salverà il mondo!’, trova nella costruzione e nel dominio del linguaggio il suo esito straordinario. Più di Nietzsche, lo confesso, e per quanto mi concerne è concessione estrema ed eretica. Qui risiede la forza e la vetta del narrare – forza e vetta perché in entrambi con l’arrogante serietà nel tedesco e incunabolo di contrasti luce ed ombra nel russo la parola possiede afflato dal sapore messianico. Il sacro che, in sé e per sé, nobilita eleva assolve. Quando il re Cadmo, si narra nel mito, donò la scrittura ai cittadini di Tebe, quei segni minuscoli simili alle zampette di formica, fece loro e a tutti gli uomini il dono più grande: salvare il detto, soffio di vento, nello scritto, pietra aguzza sul selciato. Da cui la poesia – è quel fare che permane e, tramite il linguaggio scritto e protetto da Mnemosine, la dea madre delle arti, si-ci salva…(Citare Dostoevskij è rapido tuffo nell’odierno indecente e servile dove impazzano ‘i leoni di tastiera’, falsi iconoclasti e mascherine pandemiche vili e sciatte del fluire nell’alveo dei ‘politicamente corretti’. Ragioni e torti fuori dalla riflessione sulle cose ultime, delegando ad altri i punti esclamativi. Di loro la dimenticanza vanificherà ogni sforzo con le patacche sul petto sbrodo di vittoria e sconfitta da trattare come simili e indistinti cialtroni. Citare Dostoevskij: proteggere la parola e vincere il tempo non mio ma il tempo dell’Essere a protezione e dominio dell’esistente). Il romanzo è opera compiuta in sé medesima, opera ‘sacra’ dunque nel raccogliere e ordinare e sottomettere il particolare, ogni particolare, all’universale. Lo scrittore il suo amanuense, occhio di un dio severo e avaro nello spargere i suoi doni, la penna la spada quale sigillo fiammeggiante. ‘Appena veniamo al mondo, cominciamo a morire’, pensavano gli stoici (come sempre o quasi i Greci hanno detto l’essenziale). Su un foglio in bianco, tanto simile, epifenomeno del Nulla, il nostro suicidio, quella finitudine di carne ed ossa e sangue… eppure Ettore alle Porte Scee, conteso tra il suo amore per la moglie ed il figlio e il dovere d’essere a capo e in prima fila di Troia in armi, non appartiene più a un oscuro Omero e conta poco o nulla che l’Infinito di Leopardi nasca di fronte ad una siepe modesta ad ostacolo.

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