Scuola di Pensiero Forte [102]: le relazioni di potere: l’oppressione

 

Scuola di Pensiero Forte [102]: le relazioni di potere: l’oppressione

Tornando all’analisi delle relazioni di potere, se con ineguaglianza abbiamo designato la distribuzione di vantaggi e svantaggi in una società e con dominio le relazioni di potere di alcuni su altri, adesso con oppressione andremo ad indicare gli effetti negativi delle relazioni citate su coloro che sono oggetti dell’esercizio del potere.

Ci sono svariate forme di oppressione, impossibili da assimilare in un’unica definizione di forma, tutte caratterizzate da una condizione nella quale lo svantaggio di chi subisce è quello di essere costantemente oggetto di forze esterne. In primo luogo abbiamo lo sfruttamento, una relazione di scambio ineguale che si instaura all’interno di strutture coercitive senza alternative rilevanti per gli sfruttati. Nella visione marxista, lo sfruttamento capitalistico consiste nell’approvazione da parte dei capitalisti del plusvalore prodotto dai lavoratori, dove lo scambio di forza lavoro contro un salario, in condizioni di scambio libero ed eguale, è tale fra valore equivalenti, una configurazione che Marx ritiene essere ingannevole apparenza: il plusvalore viene ottenute col potere degli sfruttatori e, dunque, il lavoro salariato è estorto da una cieca compulsione dei rapporti economici, ove i lavoratori vengono la propria forza lavoro a un capitalista, e poi a svolgere l’attività lavorativa sotto il controllo e la supervisione di quest’ultimo. Questa è l’oppressione che si identifica con le costrizioni anonime e impersonali del mercato del lavoro. Un secondo tipo è il controllo che il capitalista esercita sul processo lavorativo, lì dove l’operaio è privato di quanto lecitamente gli spetta in maniera equivalente.

Un’altra possibile definizione è quella in termini di trasferimento di poteri, nel quale gli sfruttati esercitano le proprie capacità sotto il controllo di altri, accrescendo tutto il sistema del potere. Quest’ultimo è il centro della relazione: il potere messo al servizio degli altri viene trasferito, mentre il potere sugli altri accresce sistematicamente. Vediamo che lo sfruttamento può trovare diverse declinazioni quando si applica non solo al lavoro, ma anche alla religione, alla razza, al sesso, alla lingua e via dicendo, là dove ogni differenza viene assunta a pretesto di divisione e, dunque, possibile relazione di subordinazione.

Chi è oggetto dell’oppressione, cioè l’oppresso, vive una condizione di svantaggio sotto tutti i punti di vista, ed è forse questo uno degli aspetti più negativi ma allo stesso tempo ignorati dell’oppressione. La stessa modernità, e la post-modernità ancor di più, ha moltiplicato le forme di oppressione e, quindi, di subordinazione degli oppressi, negando quando implicitamente, quando apertamente, l’ideale di eguaglianza proclamato sin dal suo principio. Con l’ambizione di liberare e redimere, si è giunti ad opprimere ancor più di prima. Nella contemporaneità, vediamo attorno a noi una nuova servitù, per riprendere le parole del già citato Weber e quelle di Etiénne de La Boetié, derivante da una concomitanza di elementi quali l’aumento delle fonti del potere, l’irrigidimento dei nodi gerarchici della burocrazia e del mercato, l’assolutizzazione delle strutture politiche, lo scientismo come nuova religione del materialismo sacro, la liquidità dei valori e delle culture che erano ultimo baluardo di resistenza alla secolarizzazione della Tradizione. Max Weber aveva la visione di una irresistibile espansione della burocratizzazione in tutte le relazioni di autorità sia pubbliche che private, con crescente importanza degli “esperti” e della conoscenza specializzata in ogni campo, portanti ambedue le cose alla svalutazione della democrazia, intesa come eguaglianza di potere, e della libertà, vista come sviluppo del potere individuali. La soluzione proposta dal pensatore bavarese era mantenere la volontà di una nazione di non lasciarsi governare come un gregge.

Ulteriore forma di oppressione, facile da individuare nei nostri tempi, è quella derivante dal riconoscimento o misconoscimento, proprio della società multiculturale. Conseguenza es espressione di questa forma è la discriminazione, cioè la negazione di vantaggi socialmente apprezzati medianti pratiche basate sul trattamento ingiusto o dannoso riservato a determinati gruppi, nei quali le persone vengono non solo private dei benefici, ma anche della dignità, con la conseguente esclusione dalla cultura del riconoscimento dominante e senza più alcun rispetto. Lo svantaggio materiale creato dalla discriminazione simbolizza il dominio della cultura del riconoscimento che lo determina. Si tratta di un problema proprio dell’età moderna perché sostanzialmente presentatosi, con grandi numeri, a seguito del colonialismo geografico ma soprattutto culturale ed ideologico: questo è controllo dei mezzi di interpretazione e comunicazione, ridefinizione degli archetipi e, nel lungo termine, disfacimento e rigenerazione di una intera società.

L’esasperazione di queste forme di oppressione le riconosciamo specie nei social media, dove l’immagine è tutto e l’identificazione, fluida e narcisistica e nichilistica, passa attraverso l’approvazione o disapprovazione sociale secondo i criteri della cultura di riferimento, che non è più quella definita etnicamente e/o geograficamente, bensì quella trasmessa come “moda” del momento, pescata dall’ampio mare del mondo globalizzato. Uno smartphone può essere un portale sul mondo, ma quello strumento ha dei padroni che ne scrivono le regole e che esercitano del potere, che ne siamo coscienti o no.

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