Scuola di Pensiero Forte [107]: l’evoluzione politica della società [2]
La concezione della persona politica era per gli antichi Romani una forma potentemente sorretta dalla sua sostanza. L’organizzazione giuridica, necessaria e perpetua, della collettività vedeva il superamento e la trascendenza dei singoli individui che la compongono, rendendo così impossibile una considerazione del singolo avulso da una comunità di riferimento, dapprima gentilizia e in seguito statale. Anche se nella dottrina politica romana non esisteva il concetto di Stato, tutto moderno storicamente parlando, considerato come persona ossia quale soggetto di diritto, dotato di volontà al pari degli uomini, per formare lo Stato non era necessario affermarne la personalità giuridica. In un certo senso, essa era sottointesa nella teoria e manifesta nella prassi.
Il sostantivo imperium rende bene l’idea. Per i Romani il termine era portatore di tre valori etimologicamente collegati al comandare, ovvero potestas, iussio, perpetuum regnum. La prima è l’esercizio del potere, anticamente legato alla figura del magistrato, e designa l’ufficio proprio di chi comanda con una logica di bene rivolto a tutti ed in modo universale, nel tempo e nello spazio, dunque un qualcosa che rimanda anche alla sacralità dell’ufficio ricoperto che comporta un altissimo onore ma, altrettanto, un gravoso onere. Lo iussio è il comando, l’ordine, così come viene impartito ed è un qualcosa di performante, vale a dire che opera una trasformazione, ha una capacità di cambiare le cose e far muovere verso una direzione; potremmo dire che è l’attuazione esecutiva del potere detenuto. Il regno perpetuo è, infine, il concetto più alto e nobile dei tre, perché rimanda ad una idealità che non ha limiti di tempo e di spazio, estendendosi oltre ogni materialità, in un trascendere costante che richiama all’unità cosmologica propria del pensiero antico. Qui troviamo la giustificazione di quella superiorità del tutto rispetto al singolo, della somma riguardo le parti, nonché la giustificazione della sacralità quasi mistica riservata allo stato.
Scriveva Teodoro Mommsen sul punto che «il concetto di Stato dei romani poggia sull’attribuzione ideale di questa capacità di agire alla cittadinanza, al populus e sulla sottomissione della volontà particolare di ogni persona fisica che fa parte della collettività a questa volontà generale»[1]. Sottomissione, quest’ultima, che non deriva da alcuna formulazione circa l’ordinamento della res publica, paragonabile alle moderne Carte Costituzionali, perché la Costituzione politica romana risulta dal fatto e dalla consuetudine ed era estremamente elastica. La res publica era un vero e proprio patrimonio comune del popolo romano, tanto che Cicerone ebbe a scrivere «Res publica est res populi»[2] ovvero “La Repubblica è cosa del popolo”, ove a fondamento vi sono la giustizia e la comunanza d’interessi. Da ciò deriva che lo Stato era già a quei tempi portatore di diritti e l’intera cittadinanza, la civitas, non era una mera astrazione distinta dal popolo, ma l’incarnato di quei diritti nell’individuo e nel collettivo.
Il valore dello Stato classicamente inteso resta strettamente collegato ad una concezione unitaria e trascendente dell’organica armonia fra i singoli e la comunità, dando il via a quella grandiosità della politica che resterà nella Storia come esempio senza fine anche nei secoli successivi.
[1] Teodoro Mommsen, Disegno del diritto pubblico romano (1895), traduzione italiana compiuta da P. Bonfante e riveduta da V.Arangio-Ruiz, Milano, 1904 e Varese-Milano,1943, p.92 e seguenti.
[2] Cfr. Cicerone, De Re Publica, I, XXV.