Scuola di Pensiero Forte [56]: l’identità della comunità – l’etica comunitaria (3)

 

Scuola di Pensiero Forte [56]: l’identità della comunità – l’etica comunitaria (3)

La condivisione della vita buona, ovvero della vita ordinata al Bene comune, è il primo passo condiviso per la realizzazione di esso e qui si manifesta la natura sociale dell’essere umano.

Quasi tutte le concezioni etiche che la Storia ha conosciuto, nonostante le varie divergenze, hanno riconosciuto che il bene umano è un bene di natura sociale o comune, essendo l’uomo stesso un essere sociale. Questo riconoscimento deriva da quella che Rawls1 chiamava “circostanza di giustizia”, per cui la cooperazione tra gli uomini rende possibile a ciascuno una vita migliore, più buona appunto, i qualsiasi altra vita che potrebbe vivere contando esclusivamente sulla propria attività, senza stabilire relazioni con gli altri.

Oggigiorno il mondo propone una etica di stampo utilitarista ed individualista, dove tale forma di collaborazione fra le persone viene vista con riguardo esclusivo ai mezzi, stabilendo così dei rapporti il cui fine è la soddisfazione di una serie di desideri e necessità strettamente individuali, come alimentarsi, viaggiare, intrattenere relazioni comunicative, consumare prodotti del mercato, negando però l’ordine dei fini, ossia il suo fine o bene proprio, considerati in sé, che ogni persona ha e su cui la comunità si fonda.

Sia chiaro che la soddisfazione dei bisogni di vita è a tutti gli effetti una realtà di fatto, che persino i pensatori classici hanno affrontato, come ad esempio troviamo negli scritto di Aristotele “essi quindi [gli uomini], anche se non hanno bisogno d’aiuto reciproco, desiderano nondimeno vivere insieme2 e ciò avviene perché la vita comune è più semplice e conveniente di quella solitaria individuale. Tale utilità non è però l’unica ragione e, in sé, non nemmeno strettamente sufficiente come motivazione. L’uomo, infatti, non si accontenta delle cose, bensì le trascende, le modifica, le trasforma. Similmente anche San Tommaso d’Aquino afferma che “l’esistenza associata, quale si realizza nella comunità della vita politica, è fonte di enormi vantaggi (utilitas)” poiché gli uomini “in virtù della loro natura sociale o politica, sono portati a vivere insieme e non da isolati, quando anche uno non avesse bisogno dell’altro per realizzare una vita politica.3

Il significato esatto di questa frase dell’Aquinate è quel principio della dottrina etica classica e cristiana, per il quale la vita buona non è un bene sociale o comune solo in quanto implica il bisogno strumentale degli altri, ma anche e principalmente perché è un bene sociale o comune in se stessa, al punto che il vivere bene di ogni uomo consiste sempre in un vivere bene insieme agli altri, in comunione, dando luogo ad un nostro bene.

Si tratta di una concezione forte del bene comunitario, dove la persona raggiunge la felicità nella misura in cui rispetta e promuove la dignità di persona degli altri, preoccupandosi della loro felicità come fosse la propria. In senso attivo, il mio bene è che tu realizzi il tuo bene; in senso passivo, il tuo bene è che io realizzi il mio bene.

La comunità implica questo mutuo impegno continuamente, in ogni ambito della vita. Io, persona, membro della comunità, sono chiamato a fare il primo passo per realizzare non soltanto il mio bene, la mia felicità, ma anche quella altrui, che unite sono poi in definitiva quelle della comunità.

Laddove non si tiene conto di queste istanze, vediamo sorgere quei mali di cui oggi il nostro mondo è gravemente malato, la cui radice è il profondo egoismo, vero e proprio veleno letale del vivere comune, radice di innumerevoli mali sociali. Spesso andiamo cercando le cause dei problemi con faticose speculazioni o imprese scientifiche, senza renderci conto che la semplice causa è la scelta del male al posto del bene, l’ego individuale che sovrasta il bene della comunità.

1Cfr. John Rawl, Una teoria della giustizia, Feltrinelli, Milano 1982.

2Cfr. Aristotele, Politica III, 6

3Cfr. San Tommaso d’Aquino, In III Politica, 5.

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