Scuola di Pensiero Forte [60]: la Persona come unitotalità
Proseguendo la nostra riflessione, è giunto il momento di considerare la persona come unitotalità di corpo e spirito.
L’essenza spirituale della persona è un elemento che non può essere negato, in quanto evidente alla prova della ragione e a quella delle scienze tutte.
Parlando di interiorità, la persona, in quanto soggetto sostanziale di natura spirituale, dotato di intelligenza, libertà e amore, vive nell’apertura alla totalità dell’essere. L’apertura all’Intero include l’apertura della persona a se stessa, agli altri, a Dio, al tutto universale.
La persona, dunque, si presenta soprattutto come un centro di unificazione dinamica che procede dall’interno, come una unità che dura nel tempo al di sotto di tutti i cambiamenti e al di là dei flussi psicologici della molteplicità delle sensazioni, dello sparpagliamento temporale e spaziale dell’io. La persona è perciò capace di ritornare su se stessa attraverso l’autoriflessione.
Scriveva Kirkegaard a riguardo che “l’interiorità è proprietà esclusiva della persona quale soggetto capace di ritornare su se stesso ed è proprio la sua interiorità che rende il singolo irriducibile al genere o alla totalità.”[1]
La persona è un tutto, una totalità concreta. Non è parte, non è inserita in una totalità più ampia, che diventerebbe fondante nei suoi riguardi. L’uomo come individuo è uno tra i molti, individuato dalla porzione di materia che fa sua, e vale dunque come un che di particolare. L’uomo come persona non è parte di un frammento, ma totalità, e come tale un che si singolare e irripetibile.
L’individuo umano è corporeo e non si deve ritenere la corporeità come un’aggiunta inessenziale, come avviene per l’approccio idealistico.
L’uomo è corpo e spirito, uniti. Si parla in questo caso di concezione ileomorfica della persona. No, nessuna paura, non è una parolaccia, è invece un termine molto bello che indica la nostra più alta e dignitosa descrizione.
L’anima è forma del corpo, forma sussistente.
Dire che l’anima è la forma sostanziale significa attribuirle la capacità di far sì che l’individuo appartenga ad una precisa specie vivente, quella contrassegnata da un corpo organico, atto ad esplicitare la vita razionale.
La dottrina tomista, quella di San Tommaso d’Aquino, dell’unicità della forma sostanziale ha offerto un apporto decisivo alla soluzione del problema dell’unità intrinseca del soggetto, che sembrava compromessa nelle antropologie di matrice platonica. Restava tuttavia da risolvere il problema di giustificare, per così dire, la dottrina dell’immortalità dell’anima.
Tommaso giunse all’affermazione della prerogativa dell’anima umana di sopravvivere alla dissoluzione del corpo: l’anima oltre ad essere forma sostanziale, è forma sussistente perché possiede un essere autonomo, come risulta dal fatto che essa compie delle operazioni indipendentemente dal corpo. Tali operazioni sono individuate nella conoscenza che l’anima può avere di tutti i corpi, nella conoscenza dell’universale e nell’auto-conoscenza.
La tesi della sussistenza dell’anima dell’uomo, coniugata alla tesi dell’anima come unica forma sostanziale del corpo, è decisiva nella costruzione dell’antropologia, poiché esplicita la valenza dell’anima non solo nella sua funzione di mente, di principio di intendere, di funzione deputata a rendere ragione delle attività intellettive propriamente umane. Tommaso parla dell’anima anche nella sua funzione metafisica, come principio ontologico, sulla base di un isomorfismo forte tra l’operazione del conoscere e l’essere del soggetto conoscente: “operari sequatur esse”[2] (=l’operare segue l’essere).
L’operare dipende dall’essere, ossia la capacità operativa di un soggetto è condizionata dalla natura ontologica del soggetto che opera, cioè dalle perfezioni formali che consentono di attivare le operazioni.
Al diverso livello di immaterialità dell’operazione deve corrispondere un diverso livello di immaterialità dell’essere, in forza dell’istanza isomorfica.
In sintesi: l’intendere e il volere esprimono due facoltà dell’anima, per le quali essa non si lega formalmente al corpo. Alla dissoluzione di esso non segue necessariamente la dissoluzione dell’anima, perché essa si rivela sussistente.
[1] Søren Kierkegaard, La malattia mortale, Mondadori, Milano 1991, p. 21.
[2] San Tommaso d’Aquino, Summa contra Gentiles, I, 43, 2.