Scuola di Pensiero Forte [62]: il corpo, epifania della persona

 

Scuola di Pensiero Forte [62]: il corpo, epifania della persona

Volendo ora considerare il passaggio da corpo a corporeità, è necessario considerare il carattere personale della corporeità.

Nel contesto storico e culturale attuale si mette in luce una certa dissociazione tra esteriorità del corpo ed interiorità della persona, una vera e propria rottura dell’unità dell’uomo, che è sintesi di un elemento corporeo ed uno spirituale, come abbiamo avuto modo di capire precedentemente. La nostra cultura ci pone spesso di fronte a immagini del corpo che sono inadeguate, perché insufficienti ad esprimere il carattere persona della corporeità.

Nella definizione dell’io entra necessariamente il corpo, giacché è impossibile percepirsi senza di esso. Eppure, l’io non si identifica con il corpo, ma lo eccede, va oltre. L’enigma dell’uomo è, dunque, proprio l’enigma del rapporto tra il corpo e questo qualcos’altro che corpo non è, e che la tradizione filosofica ha denominato spirito o anima.

La persona è corporea, ma trascende il corpo, non nel senso di poterne prescindere, ma nel senso di avere la capacità di compiere operazioni non esclusivamente corporee.

La peculiarità della persona è attestata dall’esperienza che ci manifesta l’essere umano come quel soggetto capace di sensazioni e, contemporaneamente, anche capace di concepire idee universali. Tale peculiarità è, però, garantita solo se si afferma che esiste un principio che consente al corpo di operare in un certo modo, ma che non è corporeo.

Questa ambivalenza si manifesta nelle espressioni “io ho un corpo” e “io sono un corpo”, che sono entrambe valide anche se nessuna delle due può essere usata in senso assoluto.

Dire “io ho un corpo” è esatto, ma richiede una necessaria precisazione, perché la modalità di possesso del mio corpo non è alla stregua del modo di possedere ciò che corpo non è, come ad esempio un oggetto qualsiasi. Non ho, non possiedo un corpo come un qualsiasi oggetto nel senso che non posso prendere le distanze dal mio corpo e, in senso stretto, non lo posso usare senza che le conseguenze si ripercuotano sull’intera persona. Allo stesso modo, l’espressione “io sono un corpo” va accompagnata al chiarimento che “non sono soltanto corpo”, ma anche qualcosa altro.

Per questo motivo, la filosofia dell’uomo preferisce utilizzare il termine corporeità anziché corpo: esso esprime maggiormente l’unità corporeo-spirituale della persona. Rispetto al termine corpo che si riferisce a una parte della persona, rievocando la scissione classica tra corpo ed anima, corporeità ha una maggiore ampiezza, indicando la soggettività umana nella sua condizione corporea che costituisce l’identità personale.

Io sono me stesso anche grazie al mio corpo, che è unico e irripetibile, “mio” perché è costitutivo di me.

Dobbiamo precisare un’altra cosa: l’uomo non è un organismo animale, ma corporeità.

Si deve alla scuola fenomenologica una più attenta e profonda riflessione sul significato di questo termine che abbiamo introdotto, riflessione che ha consentito di superare il tradizionale dualismo antropologico anima-corpo, il quale è stato nei secoli origine di alcune degenerazioni come lo spiritualismo o il materialismo.

Attraverso la distinzione introdotta da Edmund Husserla tra körper, il corpo inteso in senso puramente materiale, e leib, il corpo vivente, prerogativa degli esseri dotati di caratteristiche psicofisiche, si è messa in luca l’essenziale partecipazione del leib alle funzioni della coscienza e al rapporto che l’uomo ha col mondo.[1]

L’uomo non è un semplice organismo animale a cui è stata aggiunta una coscienza, dotata di meccanismo complessi, che ne giustifica l’emergenza tra i viventi. È intelligenza corporea, spirito incarnato: ciò significa che i dinamismi del corpo umano presentano essi stessi una complessità che risponde all’intima unità della persona. Di fronte all’organismo, che è proprio dell’animale, l’uomo è, invece, caratterizzato dalla corporeità.

 

[1] Suggeriamo un confronto con Edmund Husserl, Cartesianische Meditationem, § 44.

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