Scuola di Pensiero Forte [93]: i meccanismi teoretici del potere: l’autorità
Un discorso a parte fra i meccanismi teoretici del potere lo merita il concetto di autorità. Quando la manipolazione implica un’arte o una capacità che trascende, e talvolta sovverte, i dettami della ragione, ecco che entra in gioco l’autorità, la quale esclude l’uso della ragione appellandovisi contemporaneamente. Da un lato richiede che il soggetto non eserciti la propria facoltà di giudizio, mentre dall’altro invoca una giustificazione razionale per imporre la rinuncia. Il soggetto che accetta l’autorità accetta come ragione sufficiente per agire o credere in un certo modo il semplice fatto che “così gli è stato detto”, “questi sono gli ordini”, “se viene detto all’autorità allora va bene, è giusto”. Accettare l’autorità significa astenersi dall’analizzare criticamente ciò che viene imposto, agendo e credendo sulla base di una ragione di secondo ordine, non su una valutazione razionale nel senso autentico e personale del termine.
Chi esercita l’autorità non si mette, quindi, nella esigente posizione di dover dare delle ragioni, ma di essere obbedito e creduto perché sia ha un diritto riconosciuto a ciò. C’è un passo nello scritto De Cive di Thomas Hobbes che traccia un’interessante distinzione fra il consiglio e il comando: «Il consiglio è un precetto in cui la ragione dell’obbedienza deriva dalla cosa stessa che viene consigliata; il comando invece è un precetto in cui la causa della obbedienza è la volontà di chi comanda. Infatti è improprio dire “io comando”, se non quando la volontà si sostituisce alla ragione. Ora, quando si obbedisce alle leggi non in virtù della cosa stessa, ma in ragione della volontà del consigliere, la legge non è un consiglio ma un comando».[1] È così che l’autorità offre una ragione di primo ordine per agire o credere ed una di secondo ordine per ignorare le ragioni contrastanti.
Bisogna sottolineare che esercitare l’autorità non richiede una intenzionalità diretta, in quanto una persona può accettare come autoritativo ciò che è stato inteso come un semplice consiglio, per non parlare del valore che viene attribuito all’autorità o a più autorità messe in paragone, cosa del tutto soggettiva e comunque riferita ad altri criteri.
Vediamo dunque che l’autorità la troviamo in esercizio fra chi esercita e chi subisce, attraverso le norme di una società, e infine da un punto di vista impersonale e che si presume come oggettiva, dal quale può essere giudicata ogni pretesa di autorità. Ciascuna delle prospettive citate offre risposte diverse a domande diverse: il terzo punto fornisce una definizione normativa o non relativistica, ove l’autorità è legittima se risponde a precisi criteri ritenuti razionali; il primo punto fa dipendere la risposta delle credenze e dagli atteggiamenti delle parti coinvolte; il secondo fa riferimento a norme prevalenti. Quest’ultima posizione è la più adottata dai Sociologi del Diritto[2], secondo cui tali che siano i motivi per cui si obbedisce ad un comando, ciò che conta è il suo fondamento legale. Chi è soggetto all’autorità può essere nondimeno autorizzato ad agire in base alla propria coscienza o a determinati interessi, oppure sulla base di un’altra autorità; il punto essenziale rimane il fatto che l’autorità esclude l’azione o la credenza basate sulla valutazione delle ragioni. D’altronde, coloro che accettano l’autorità assumono come presupposto il fatto che vi sia una buona ragione per tale esclusione, e che l’autorità ci guidi nella stessa direzione che si presume indicata dalla ragione, ossia che le proposizioni autoritative contengano la potenzialità di un pensiero razionale.
[1] Cfr. Thomas Hobbes, De Cive. Elementi filosofici sul cittadino, a cura di T. Magri, Editori Riuniti Univ. Press, Roma 2019, cap. 14, I.
[2] Per approfondire, si consiglia la lettura di Max Weber, considerato un classico del pensiero sociologico, in particolare i testi Economia e società, L’etica protestante e lo spirito del capitalismo, Le origini del capitalismo moderno.