Sentieri nel bosco dello stile

 

Sentieri nel bosco dello stile

‘Wer gross denkt muss gross irren’, così il filosofo Martin Heidegger, sebbene ci sia chi dubiti che abbia mai pronunciato o scritto una simile espressione. La frase può ben tradursi e si completa, comunque sia la sua autenticità: ‘Colui che pensa nella grandezza, costui nella grandezza è costretto ad errare’. La ritrovo citata nell’opera di Ernst Nolte dedicata proprio a chi viene –  non a torto – considerato il massimo filosofo del Novecento. E nel linguaggio e nel suo senso gli si confà. Partecipa a quei ‘sentieri interrotti’ (die Holzwege), che, prendendo avvio dal limitare del bosco e più ci si inoltra, tendono a disperdersi fino a confondersi nella natura stessa. Chissà se si arriverà alla radura, lo spazio deputato alla luce (non a caso in tedesco radura si dice ‘Lichtung’ che rimanda alla luminosità), o trovare il percorso per la vetta, quella cima ove si contempla la vastità. In ciascun sentiero – e tappe della ricerca dell’essere tra svelamento e occultamento – si raccoglie al contempo quell’andare e il suo avverso smarrimento, quel procedere e il momento del ripiegarsi in muta attesa. Qui l’errare e l’errore si rendono sinonimi…

Ho memoria di una domenica mattina, grigia e gelida. Raggiungo la periferia di Francoforte con il tram. Qui si erge, modesta montagna, il Taunus. La cima la si può raggiungere comodamente con la strada asfaltata, in macchina, parcheggiare di fronte ad un Gasthaus in legno, birra e panini e piatti caldi e patate e wuerstel bolliti con tanta senape. Preferisco inoltrarmi nel bosco e seguire uno dei possibili sentieri. Mi perdo tra nebbia rami intrecciati terreno fangoso e cosparso di foglie morte. Mi trovo, improvviso, un vecchio signore che mi indica il percorso e m’accompagna. Vorrei ringraziarlo, è sparito al limitare del bosco…                                                                                            

Niente paura. Abbandono il terreno mefitico del filosofare nel timore di ingenerare il Chaos, non quello interiore da cui il padre di Zarathustra, il mio amico Nietzsche, si attende veder sorgere ‘stelle danzanti’. Quello ove signoreggia solo quel vorticare di parole che spesso sono alibi a nascondere troppi cattivi pensieri e incapacitanti. (Chi ha letto qualcosina di Bastian Contrario sa come prediliga il raccontare le vicende di uomini e di donne che mi hanno insegnato intorno allo stile ‘in quantità di amore e sacrificio’ (come ebbe a rispondere Codreanu, il Capitano, al giudice che insinuava del losco nei suoi comportamenti) e mi hanno reso ostico e ostile nei confronti degli ‘indecenti e servili’- patentati paludati laureati o/e semplicemente stronzi).                                               

È – e rimane – il linguaggio di Heidegger complesso e tale che ogni traduzione (del resto, tradurre equivale sempre un tradire inconsapevole) si rende arbitrio e limite. Darne una lettura ‘politica’, come hanno fatto alcuni e detrattori, è volgersi alla volgarità del presente, cercare il passaggio più semplice e banale. Come scrive Franco Volpi, mente acuta ed esigente interprete: ‘La proverbiale difficoltà del suo linguag-gio e la vertiginosa altezza delle questioni da lui affrontate rendono particolarmente ardua la comprensione del suo pensiero’. E tanto basta. Di conseguenza estrapolare alcune frasi citare dichiarazioni ufficiali, ad esempio, nel breve periodo in cui tenne la carica di Rettore dell’università di Friburgo rifiutarsi di pubbliche abiure e condanne per marchiarlo – e, soprattutto, dequalificare i suoi scritti – è operazione, ripeto, stolida e vile.

Anche qui vi sarebbe da dire tanto ed oltre. Non è l’intento di queste brevi note. Ciò che mi conta, qui come altrove, è mettere in evidenza proprio questo suo rifiutarsi di cedere al facile gioco dell’abiura. Collocarlo in quello spazio dell’esistenza dove si determina lo stile tramite testimonianza. Fino all’ultimo, fino alla celebre intervista, resa al settimanale Der Spiegel, in data 23 settembre 1966, da pubblicarsi solo dopo la sua morte. Nessuna esitazione nel riconoscere come avesse plaudito all’avvento di Hitler al potere, gennaio del ’33, ‘non vedevo allora nessun’altra alternativa’ e, al contempo, riaffermare, di fronte allo strapotere della tecnica e a quale sistema politico possa essere adeguato, ‘non sono convinto che sia la democrazia’…                             

Hannah Arendt, intellettuale ebrea, da giovane discepola e amante di Heidegger, in Le origini del totalitarismo riporta questa affermazione del filosofo: ‘Tutto ciò che è essenziale e grande è scaturito unicamente dal fatto che l’uomo aveva una patria ed era radicato in una tradizione’. Orfani, noi, di entrambe le radici. Noi, carnefici e vittime, ormai fedeli solo al nichilismo, illusi forse d’essere libertari nei diritti (‘né Dio né Stato né servi né padroni’, a dirla con un grido di rivolta) e, al contempo, fascisti nei valori (‘anticonformisti per eccellenza, antiborghesi sempre, irriverenti per vocazione’, come ci insegnò Robert Brasillach) ci atteniamo alla possibilità dell’incontro e della testimonianza di tutti coloro che, appunto, hanno saputo, consapevoli o meno, indicarci la via dello stile nell’esistenza.

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