Con il decreto legge n. 375 del 12 febbraio 1944 la Repubblica Sociale Italiana istituiva la socializzazione delle imprese, premessa fondamentale per la creazione della nuova struttura dell’economia italiana. Il termine venne coniato nel 1943 per indicare una dottrina economica concepita all’interno del sistema economico corporativista della Repubblica Sociale, ma i prodromi vanno individuati nella Carta del Carnaro promulgata a Fiume nel 1920 e nella Carta del Lavoro del 1927.
La socializzazione avrebbe dovuto costituire la terza via nei confronti dei due maggiori sistemi economici allora vigenti, capitalismo e bolscevismo, sia per quanto riguarda l’economia sia per i suoi riflessi sul piano sociale. Un atto certamente rivoluzionario che superava il vecchio dualismo ottocentesco tra capitale e lavoro ed il concetto di lotta di classe di stampo liberale, che vedeva nel lavoro il protagonista dell’economia attraverso la gestione delle imprese affidata pariteticamente ai lavoratori (operai e impiegati) assieme ai detentori del capitale delle aziende. Nel sistema socializzato: “Il popolo partecipa integralmente, in modo organico e permanente, alla vita dello Stato e concorre alla determinazione delle direttive, degli istituti e degli atti idonei al raggiungimento dei fini della Nazione col suo lavoro, con la sua attività politica e sociale…”
Riconoscimento dell’importanza del capitale, ma insieme a chi fornisce braccia e menti, elementi altrettanto fondamentali all’attività economico-sociale. Né dominio della finanza, né, espropri statali: ma armonizzazione degli elementi in un rapporto di condivisione delle responsabilità (e degli utili), affinché nessuno si senta depositario del destino dell’impresa e, di conseguenza, della nazione in una innaturale investitura per intrallazzi bancari e finanziari, per deleghe, o per rappresentanze più o meno mediate. In ogni azienda le rappresentanze dei tecnici e degli operai cooperano attraverso una conoscenza diretta all’equa fissazione dei salari, nonché all’equa ripartizione degli utili.
Non è un caso che alla proposta sulla socializzazione collabori Nicola Bombacci, fra i fondatori nel 1921 del Partito Comunista d’Italia riprendendo tra l’altro le teorie dell’anarchico ucraino Nestor Ivanovič Machno, dal fabianesimo e dal distributismo geselliano. La piena realizzazione dei propositi verranno attuati con la creazione del Ministero dell’Economia Corporativa nel settembre 1943 e con il Decreto Legislativo n. 375 del febbraio 1944. Tale provvedimento, accolto con sospetto da alcuni industriali italiani dichiarava: “Le imprese di proprietà privata che dalla data del 1° gennaio 1944 abbiano almeno un milione di capitale o impieghino almeno cento lavoratori, sono socializzate. Sono altresì socializzate tutte le imprese di proprietà dello Stato, delle Province e dei Comuni nonché ogni altra impresa a carattere pubblico. Alla gestione della impresa socializzata prende parte diretta il lavoro.” La socializzazione pur tutelando la proprietà privata, la libera iniziativa e la concorrenza, elimina di fatto il rapporto dipendente-padrone, affidando ai lavoratori stessi la responsabilità della produzione.
Furono socializzate circa 6000 imprese fra cui Fiat, Montecatini, Falk,Cartiere Burgo, Olivetti, le Cartiere Binda, Alfa Romeo, Dalmine, Officine Stanga, Lanificio di Lodi, Istituto Grafico De Agostini etc. L’attuazione Integrale della Socializzazione (ironia della sorte) era prevista per il 25 aprile 1945. Tra i primi atti politico-amministrativi del Comitato Liberazione Nazionale, vi fu l’abrogazione del Decreto Legge sulla Socializzazione. In un orizzonte dominato dal capitale finanziario, l’ evocare il ritorno al diritto naturale della partecipazione diretta dell’uomo all’opera della sua vita può assumere una valenza realmente rivoluzionaria, molto di più delle tematiche di “sottofondo” tanto caldeggiate dai sovranisti e sovranari da tastiera.