Quando il filosofo Arthur Schopenhauer, ad esempio, conclude l’opera sua, Il mondo quale volontà e rappresentazione, in una scarna paginetta riduce la descrizione del Nirvana, l’annientamento e il superamento della condizione umana dal dolore di vivere, poche e scarne frasi, oserei dire banali e simili a temino che si usava fare alla scuola elementare. (Più efficace nell’effetto comunicativo il suo emulo, il cantante dei Nirvana, Kurt Cobein con il fucile e la canna in bocca lo sparo nella notte…, la modernità quale spettacolo). Quel dire indicibile – evocativa la lettura di quel “non detto” a cui ci ha invitato Martin Heidegger – perché consiste la consegna nel vivere e vivere è un gesto una sfida uno sberleffo uno schiaffo (ecco perché fra gli “amici” più cari il guascone dal grosso naso il verso abile e abile di spada). Poi il gioco delle maschere e le parole quasi sempre a giustificare consolare assolvere. Se non sono armato so bene sputare lontano… (contraddizione rendere questo foglio in zampe di formica con la tastiera violando il bianco della sua neutralità). Ne La ruota del tempo Robert Brasillach mette in bocca ad uno dei protagonisti come lo straordinario del vivere, sinonimo di giovinezza, sia “nell’eminente dignità del provvisorio” – non impone regole non gioca al confronto non esprime giudizi ci prende per mano e ci conduce là dove si rende eterna la nostra giovinezza. Amara se ce ne scordiamo o la rimiriamo con nostalgia o, peggio, come fiore appassito, carne in putrefazione e in preda al brulicare di vermi.
Essere soli. Nella nascita, nella morte. In fondo vita morte la morte nella vita la vita nella morte – ruoli apparenze inganni -, mi torna in mente la tesi di laurea su Carlo Michelstaedter (dopo tanti anni ne ho scritto di recente proprio qui, in questi miei scalcinati e sovente sconsiderati ‘interventi). Contro Aristotele e di seguito tutti quei simulatori, gli incantatori – “la vita è bella!”, dicono e, intanto, la natura degli uomini e delle cose affila il coltello -. Cercare di darsi e dare un senso e trovarlo soltanto attraverso le figure a margine della periferia d’ogni Impero, i Raminghi del confine, vagabondi estromessi simili a vaga ombra della cultura come se la nostra esistenza si dimostri nella sua autenticità quando si scopre in sentieri dispersi rivoli e percorsi erte le più aspre, solitari nell’azione ed altri nel pensare. Impostori del vero e del falso. Unica questa forma di aristocratico dissenso. Distanti e distinti.
Davanti ad uno specchio quale immagine si riflette? Tu io un altro o nessuno? Io mi accontento di quest’ultimo… Il tu e l’io sono soggetti alla temporalità, al gioco di ombre, ambiguo in sé, alla polvere che sfaccetta il volto e lo frantuma. Intanto nella segreta del palazzo reale Sigismondo, futuro sovrano di Polonia, si interroga essendo “la vita (è) sogno”, se sia meglio ben agire per non correre il rischio di risvegliarsi e di ritrovarsi affogare in un oceano di rimorsi rimpianti rancori. Si afferma, però, essere la morte l’unico sonno senza sogni. Assenza di rischio, dunque… cenere dispersa dal vento.
Sono tornato.
Immagine: https://lucaronconi.it/