Fulvio, via email, mi manda Memorandum, inedito, che Robert Brasillach scrive nei primi giorni o quasi di prigionia, dopo essersi consegnato il 14 settembre del ’44 alle autorità della Francia “liberata”. Tanto ansiosa, in fremiti simili a ondate ormonali, di mettere dietro sbarre e chiavistelli e portare davanti a plotoni d’esecuzione coloro che, illusi, avevano confidato nella “collaborazione” con la Germania e auspicato un “nuovo ordine europeo”. Erede del furore giacobino, dell’età del Terrore, all’ombra della ghigliottina. Dimentica come, al momento della disfatta nel giugno del ’40, si fosse affidata all’eroe di Verdun, il vecchio maresciallo Philippe Pétain e gli avesse affidato pieni poteri per poi insultarlo e lasciarlo morire in prigione… ma si sa che coloro che vincono – in Italia, ad esempio, dopo il 25 aprile – fanno scempio della carne dei vinti ed hanno memoria come l’elastico delle mutande…
Brasillach, ipotizzando e ponendosi le domande eventuali del tribunale prossimo ed inevitabile (forse crede ancora e spera, ragazzo di trentacinque anni, cresciuto e mai divenuto adulto, fedele al mito della giovinezza, che il mondo abbia preservato uno straccio di giustizia e di ragione), s’affretta ed annota quanto vale, come rispondere. C’è una ansia a difendersi che ne appanna il tratto, lo rende opaco, mentre noi lo riconosciamo, il più autentico veritiero e coinvolgente, il poeta dei Poemi di Fresnes, di cui facemmo rinnovata traduzione e introduzione, lo scrittore di quella Lettera a un soldato della classe ’40 ove ci lasciava, a testamento, la fierezza e la speranza. E a quella fierezza e a quella speranza abbiamo cercato – non sta a noi rispondere – di esserne degni. Uno scritto che lascia un certo retrogusto amaro ma che forse è stato giusto stampare – in questo mese di febbraio, suppongo – e a cui ho aggiunto brevi immagini degli ultimi suoi giorni di libertà. (In questo stesso mese, come riferito in precedente intervento, altro libro di Brasillach su l’ascesa di Léon Degrelle).
6 febbraio 1945, al forte di Montrouge, alle porte di Parigi, il plotone composto da dodici bocche da fuoco è allineato di fronte al palo dei condannati a morte. Quante volte abbiamo letto – e ci siamo commossi – la descrizione della sua fucilazione che ci ha fornito Jacques Isorni, il suo avvocato… Quando per anni mesi giorni abbiamo misurato i nostri passi in tre metri per sei o a “all’aria” in cortile, ci sentivamo simili, presuntuosi e arroganti, a Robert Brasillach, già elevato al nostro fratello più caro, e giurammo a noi stessi come i Poemi di Fresnes sarebbero stati il primo dono e il più grande alla nostra libertà ritrovata, fra i libri che cominciavano ad allinearsi di quella piccola biblioteca che ero andato edificando fin da adolescente – e a nostra madre che ci portava “il pacco” ogni martedì chiedemmo tanti e sempre nuovi libri, ma mai le sue poesie, struggenti e al contempo rasserenanti.
Al 6 febbraio 2022, nella notte e nel silenzio che avvolge la mia stanza – prigioniero di questa oscena e vile pandemia dello spirito che s’avviluppa mefitica sulla carne e le ossa e nel sangue e vorrebbe dettare le sue leggi – cercherò oltre il cielo stellato “Brasillach chez nous” a vincere il tempo e lo spazio.
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