Studiare per lavorare o lavorare per studiare?

 

Studiare per lavorare o lavorare per studiare?

Quante volte avete sentito ripetere la frase, baluardo della propaganda esterofila: “L’Italia è un paese di ignoranti”? Già, perché l’esterofilia è lo sport preferito nei salotti buoni; quegli ambienti frequentati da individui probabilmente meno intelligenti rispetto a buona parte della popolazione ed anche dei non laureati che però hanno avuto la fortuna di potersi istruire in maniera più approfondita. Ciò, secondo loro, è sufficiente a bollare come troglodita chi, per una serie di motivi spesso indipendenti dalla propria volontà non ne ha avuto le possibilità.

Studiare in Italia è diventato un lusso, un privilegio basato su criteri di ceto e non di naturale superiorità cognitive ed attitudinali. Trascuriamo nel computo delle spese che una famiglia deve sostenere per permettere ai propri figli di studiare le tasse universitarie, che in linea di principio dovrebbero essere proporzionali alle possibilità economiche di ogni nucleo familiare; anche se poi, sappiamo fin troppo bene come l’ISEE (l’indicatore della situazione economica di un nucleo familiare) valuti in realtà una situazione parziale, esso può infatti essere sia sottostimato, non considerando beni e capitali in tasca ad individui non direttamente compresi nel nucleo, sia sovrastimato, escludendo dal proprio computo eventuali situazioni debitorie della famiglia o beni posseduti che comportano esclusivamente spese (es. vecchie abitazioni ereditate); a tutto ciò va aggiunto la totale non correlazione tra ISEE e costo della vita nel relativo contesto cittadino. Passiamo perciò alle spese che invece non si può fare a meno di considerare: Includiamo affitto (per i fuori sede), trasporti, materiale didattico ed il costo della vita notoriamente più alto in una grande città. Risulta chiaro che le possibilità di poter usufruire del diritto allo studio non sono così scontate. Aggiungiamo a tutto ciò il fatto, non secondario, che lo studio preclude la possibilità di poter lavorare a tempo pieno e di percepire dunque un reddito sufficiente al proprio sostentamento, a meno di non voler studiare e lavorare a tempo pieno contemporaneamente prolungando necessariamente i tempi di conseguimento del titolo (o smettendo di dormire, sic).

Sottolineiamo infine la rilevante discriminazione di ceto che introduce il divario assuntivo tra laureati in università private e pubbliche, spesso dettato non tanto dall’effettivo valore aggiunto in termini di qualità, pagato a buon prezzo, bensì dall’implicito riconoscimento della marchetta versata. In questo contesto risulta evidente l’assenza quasi totale di uno stato, incapace di assicurare che le potenzialità del proprio apparato accademico e dei propri giovani possano essere sfruttate a pieno.

Questa è la base da cui si parte, a ciò aggiungiamo l’ormai canonico clima di totale incertezza e totale imprevedibilità cui siamo sottoposti da ormai un anno di stato di emergenza pandemico. Dopo un trimestre di didattica a distanza, necessaria, ma sicuramente inficiante la qualità delle lezioni, gli studenti sono stati abbandonati a sé stessi. Contratti d’affitto da prolungare o semplicemente delucidazioni sul futuro prossimo sono oneri lasciati completamente ai ragazzi ed alle proprie famiglie. Chi studia ormai è abituato a non poter fare previsioni non più lunghe di una settimana e a dover lanciare una moneta per decidere se rimanere a casa o spostarsi in sede lancio da ripetere poi per capire se seguire le lezioni dal PC o all’università. Non che la didattica a distanza sia totalmente un male, anzi, ci si aspetta che almeno, quando sarà possibile riprendere le lezioni completamente in presenza, questa alternativa sia presa in considerazione come opportunità in più, tuttavia è vergognoso come le istituzioni abbiano completamente ignorato le difficolta dei ragazzi che studiano all’università, presentando pedissequamente delle non-soluzioni o dei piani dalla durata imprevedibile e dall’efficace più che discutibile. Si pensi ad esempio agli icastici banchi a rotelle, ai vari bonus insulsi, al problema sicurezza negli ambienti scolastici salito agli onori della cronaca solamente in relazione al virus ma completamente trascurato quando si trattava di valutare la tenuta strutturale di vecchi edifici fatiscenti. Tutto ciò a dimostrazione che gli interessi dello stato nei confronti della scuola ed in particolar modo dell’università sono soltanto uno specchietto per le allodole, declinate in astruse soluzioni di facciata atte a dissimulare le reali esigenze di chi è in fase di formazione per divenire il futuro di una nazione anziana e stanca.

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