Tempo e spazio nell’età della globalizzazione

 

Tempo e spazio nell’età della globalizzazione

L’Occidente dell’era cristiana ha capovolto la base culturale europea che dalla Grecia e da Roma si fondava su di una visione ciclica del tempo e su una finita dello spazio, come presupposti dell’armonia sociale. Sia l’idea di polis come quella di imperium, come è stato notato, si fondavano entrambe su una idea di finitudine: Roma era un impero universale, non universalistico; Roma era la capitale del mondo romano, non era Cosmopolis, perché lo stile della sovranità, l’humanitas, la caritas scaturivano dal genius loci considerato sacro perché unico e irripetibile. A Roma esistevano tutti gli elementi del capitalismo – ricchezza, mercato, capitale – ma non c’era il capitalismo. La distorsione globalistica è frutto di quella che un filosofo non banale come Giacomo Marramao ha definito “accelerazione del tempo”, riconducendola alle radici ebraiche del moderno. Questa accelerazione ha scisso il tempo tra una proiezione incessante verso il futuro e un’atrofizzazione del passato, mentre il simbolo del tempo per i greci era la ruota spezzata, quindi non progredente, che permetteva di spregiare il lavoro retribuito e di non attribuire alcun valore sociale alla ricchezza, se non come estetica del potere. Così, ad Atene, tutti i banchieri erano meteci o forestieri e le banche dell’epoca non avevano nessuna influenza sulla vita politica ed economica. Allo stesso modo occorreva distruggere la finitezza dello spazio. Un obiettivo completamente raggiunto solo di recente, grazie alla virtualità cibernetica che costituisce la negazione stessa del concetto di limite e misura e ha consentito al globalismo di rendere assente l’idea stessa di confine. Pomian ha scritto che la storia dell’Europa è quella delle sue frontiere, senza le quali non è possibile nemmeno delimitare e quindi rendere intellegibile il concetto stesso d’Europa: omnis determinatio est negatio, diceva Spinoza. Il suolo patrio era sacro per il contatto fisico e spirituale con il popolo che vi era nato; per questo il globalismo ha bisogno di desacralizzare il territorio, sia sotto forma di ecodistruzione, sia con la retorica debordante anti-confine che magnifica lo spazio infinito come se poi questo sguardo perduto nel vuoto tradisse una ricchezza piuttosto che lo smarrimento angoscioso del non sapere dove posarsi.

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