Rileggo alcune note in merito a Drieu La Rochelle, lo scrittore francese morto suicida il 15 marzo del ’45. Le parole di Felipe, il narratore, musico e teologo, nel romanzo del ’43, titolo L’homme à cheval: ‘La patria è amara per chi ha sognato un impero. Che cos’è una patria se non una promessa d’impero’. E quella patria non era – e non è – necessario ancorarla fra le Ande, in Bolivia, ove si svolge il sogno, l’illusione del protagonista del romanzo di Drieu che, va ricordato, aveva da sempre in mente la creazione di un nuovo ordine europeo. Quella patria fu concepita, su contrapposti e pur affini fronti, da Antonio Gramsci e da Berto Ricci.
L’Italia, nei primi decenni del XX secolo, nazione proletaria, portava sulle spalle, simile ad Enea in fuga da Troia in fiamme, una storia universale, atta ad essere punto evocativo, un richiamo per una rivoluzione mondiale. L’età di Cesare il Medio Evo la figura di Dante – proprio oggi il Ministro della Cultura ha collocato il Poeta a fondamento del pensiero conservatore – e, in tempi più prossimi, il Risorgimento nella visione del Mazzini. Egemonia della cultura – idee e sangue lavacro creativo. E non è casuale che la rivista promossa da Berto Ricci prenda nome l’Universale, il destino a cui il Fascismo non può non deve sottrarsi e di cui l’intellettuale in armi può e deve essere voce e avanguardia. Quel Fascismo ‘immenso e rosso’ a me caro, nella definizione che fu di Robert Brasillach, a me caro.
Nel 1931, con inizio della avventura breve e intensa dell’Universale (agosto del ’35 la sua forzata chiusura), Berto Ricci pubblica Errori del nazionalismo italico. È la bestia nera, con il potere plutocratico e il bolscevismo, forse il più invasivo perché – egli lo definisce ‘ideale da questurini’ – rappresenta l’animo borghese, vile ed esangue, l’impotenza verso il Primato, l’Imperium, quell’eredità universale di Roma di cui il Fascismo è il legittimo e per vocazione restauratore. Come per Gramsci, ma non con Gramsci si badi bene che c’è in lui il rifiuto del rigido classismo marxista, avverte nella storia italiana una presenza di universalità che non può chiudersi nei confini proposti dal concetto di nazione. E, rivolgendo i suoi strali contro la borghesia, egli si spinge ben oltre quel tema caro al Fascismo, essere cioè una malattia dello spirito, un modello di vita (‘noi disdegniamo la vita comoda’, ad esempio) per porre, al contempo, la questione di una mentalità e anche quale classe sociale fondata sul privilegio.
Così partecipa entusiasta al volume, edito nel 1939 a cura di Edgardo Sulis Processo alla Borghesia (con la tacita approvazione del Duce) ove si legge: ‘il privilegio economico deve diminuire. La gerarchia sociale non deve più consistere nel privilegio economico’. Luogo privilegiato la scuola riformata ove il merito domini sul censo. Ruolo dell’uomo di lettere, dunque, quale educatore e, qui, prossimo e non affine, all’intellettuale organico di Gramsci.
Un murales, i grandi cartelloni pubblicitari lungo le litoranee, il volto di uomini che si fecero magari avversi ma conobbero il valore del dono e la forza dell’esempio. Come a Cuba campeggia il volto del Che. Eredità del Novecento – rossi bagliori nel cuore della notte prima che un’alba opaca e grigia ne disperda il richiamo.
Immagine: L’ultimo giorno nella vecchia casa – Robert Braithwaite Martineau – Tate Museum (Londra) ©