Umanesimo del lavoro e demonia del denaro: il dibattito filosofico

 

Umanesimo del lavoro e demonia del denaro: il dibattito filosofico

Tra i filosofi che posero al centro della loro riflessione il tema del lavoro, un nome di grande rilievo è quello di Adriano Tilgher che, nel 1929, scriveva Homo faber, una storia del concetto di lavoro nella civiltà occidentale, attraverso la quale il lavoro diventa il centro di una nuova visione del mondo e della vita, capace di estendere all’universo e proiettare nel cosmo l’attività delle officine.

L’uomo è concepito infatti essenzialmente come attività volta a plasmare continuamente il mondo, a dargli una forma sempre più umana, imprimendo il sigillo dello spirito sulla materia. Nella concezione della vita come azione, il lavoro diventa la somma di tutti i doveri e di tutte le virtù; lavorare non è più l’espiazione di una pena, ma una realizzazione spirituale che supera incessantemente le mete raggiunte. Per Tilgher, la via attraverso la quale l’uomo moderno cerca la redenzione non è più quella del dominio delle passioni, l’ascetico raccoglimento interiore, quanto piuttosto il lavoro col quale viene sempre più trasformando il mondo esterno.

Il lavoro si stacca dal lavoratore e gli sopravvive, conferendogli una sorta di immortalità. L’eroe moderno diventa quindi il lavoratore e in particolare il generatore di lavoro, la cui figura archetipica è quella di Faust, perché, come Faust, la civiltà del lavoro è tutta protesa verso un futuro di cui l’uomo è l’artefice e il creatore. In questa esaltazione lirica del lavoro nella modernità, Tilgher intravvede un segnale di crisi nel passaggio dall’eroica fatica del lavoro al consumismo. Al posto della religione del lavoro si impone la nuova religione del consumo, del divertimento, del comfort, del corpo. Un fenomeno, questo, che il filosofo vedeva comune sia alle masse sia alle élites, le quali non bruciano più delle febbre del lavoro come i loro padri, ma mirano solo alla facile accumulazione e al consumo. E se questo rischio diventerà realtà, avverte Tilgher nel 1929, le basi stesse della civiltà barcolleranno.

La radice del pericolo consiste in un Io sempre più strapotente che proprio il lavoro crea, ma che alla lunga si sente limitato dall’attività lavorativa stessa, che presuppone sempre un ostacolo dinanzi a sé da vincere, e cerca nel gioco, nel lusso, le nuove sporgenti cui attingere la sua potenza. Nello stesso libro, Tilgher criticava Gentile per aver separato radicalmente cultura e lavoro, la prima come attività autosufficiente, mentre il secondo mera attività strumentale per fini esterni. Quando invece, per Tilgher, cultura e lavoro sono differenti solo di grado e non di natura, poiché entrambi realizzano bellezza e verità.

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