Una notte alle Botteghe Oscure
Di sera ci si ritrova in sezione. La noia trasuda come l’umidità lungo le pareti piene di crepe e vernice scrostata. Chiacchiere le solite e vane, le sigarette la gazzosa e il vino dal gusto aspro e cattivo. Non possedendo in casa la televisione, ho pronta la scusa di dire ai miei di vederla da amici. Fingono di crederci, credo. Uscire. Sono nell’età in cui ci si sente in gabbia e si vorrebbe volare. Anche in questa sera, d’incipiente e te-pore primavera, inizio anni ’60. Al Colle Oppio il giardino è deserto. Ci siamo solo noi cinque o sei in tutto, sotto i ruderi delle Terme di Traiano, dove ha sede ‘il Covo’ (a memoria di quello storico di via Paolo da Cannobio ove il futuro Duce teneva pistola e bomba a mano sulla scrivania e alla parete bandiera degli arditi. Agli esordi i Fasci di combattimento marzo 1919 e a seguire). In effetti è dedicata all’Istria e Dalmazia, ma fa più ‘figo’ il pensarla premessa e promessa d’ardite sfide…
A più modesta bravata qualcuno – forse il Cavallaro – venne l’idea stronza di andare ad attaccare manifesti nelle viuzze del Rione Campitelli, avanti al ghetto e alle spalle delle Botteghe Oscure. Tetro l’edificio e sinistro, acquistato dall’INA e pagandolo con l’oro di Dongo, da Togliatti e sodali. Gli assassini di Mussolini e dei fedelissimi fucilati lungo la spalletta del lago di Como. L’oro della Repubblica. E quel palazzone s’era re-so la Direzione del PCI e uffici politici vari. Una fortezza inespugnabile campo minato i dintorni. E quelle parole buttate lì a dare fiato a qualche bicchiere di troppo, furono raccolte e secchio pennello manico di scopa manifesti arrotolati mentre, in ciascuno di noi, la Tigre di Mompracem e lo squadrista con fez e la camicia nera assumevano il medesimo animo e il nostro volto e il cuore si diede a battere più forte.
Il primo manifesto, gli sguardi a scrutare ogni angolo, ascoltare ogni rumore, mentre la sbronza svanisce e monta la tensione. Ognuno di noi pensa in sè che avrebbe fatto meglio a starsene a casa e che prima la si finisce meglio è… Qualcuno ci ha visto da qualche finestra e lesto chiama il servizio d’ordine permanente in alloggio al Palazzo ‘rosso’. Sono armadi in movimento, pugili, dalle mani simili a palanche, usciti da film horror, king kong e famiglia. Appaiono all’improvviso, apostrofandoci in malo modo. A terra il secchio il pennello i manifesti ‘si salvi chi può!’. Il fesso di turno resta, io, e non per essere annoverato fra nobili e arditi ‘capitani coraggiosi’, solo che le gambe non rispondono. Visioni rapide di funerali ‘Presente!’ braccia tese al cielo. Avanza, lento e sicuro, uno di costoro. Ghigna. Potrebbe accartocciarmi mettermi in un bidone della spazzatura con una mano sola. Mi guarda sornione parla da umano: ‘Non ti voglio menare (questo il senso liberatorio delle sue parole). Mi devi spiegare perché tu, borghese, sei fascista; io, proletario, comunista…’. Parla, parla, vile io lo assecondo, non mi convince. Poi con un mezzo schiaffo mi manda via.
Miseria dell’oggi. Era un comunista in cui batteva forte la speranza (inganno) d’esse-re dalla parte di un mondo bello e giusto, prossimo a venire, per sé e i propri figli, la fierezza del costruttore del domani migliore. I suoi nipoti, sulle macerie del muro di Berlino, hanno messo la cravatta e in tasca i soldi delle mazzette. Nostalgia canaglia del nemico, bastoni e barricate… Ed anche per troppi di noi.