Una notte, alla fontanella con ancora i fasci littori ben visibili, lo vidi ripulirsi del sangue che gli colava dalla fronte. Con un ghigno spavaldo. Forse s’era scontrato con dei compagni e, pur possedendo una forza eccezionale, lento però nei movimenti, s’era preso una bastonata in testa. Poco danno. Un volto abbozzato nelle dura pietra i capelli crespi scuro di carnagione nascondevano una fede adamantina incrollabile. A piedi, bersagliere sul fronte russo, era fra i pochi rientrato in Italia, con i piedi congelati e feroce nell’odio verso il comunismo, bandiere rosse pugni chiusi. Quando ci sorprese – ero con un giovane profugo istriano – intenti a declamare versi del poeta russo Vladimir Majakovskji, in cui si inneggiava a Lenin e ai treni decorati dalle avanguardie futuriste (tanto apprezzate da Marinetti), prima del ‘realismo socialista’ – pietra tombale d’ogni forma moderna d’arte -, si sfilò il giubbotto e ci colpì più volte al grido ‘Partigiani! Merde!’. Lesti ci defilammo in attesa che si calmasse ‘l’ira funesta’. Questi era Zambo. Non ho mai conosciuto il suo nome. Veniva da un paesino sperduto della Calabria, dove – dicevano – il fratello fosse sindaco. Non avendo fissa dimora né svolgendo alcuna attività lavorativa, la Questura lo accompagnava alla stazione e lo rispediva con foglio di via, ma, alla prima fermata, scendeva e riusciva a trovare un passaggio fino a Roma. Qualche giorno nel carcere di Regina Coeli – l’unico luogo ove lavorasse da ‘scopino’ -, poi di nuovo le panchine del Colle Oppio e, nei giorni più rigidi, stendeva una coperta sul biliardo della sezione per dormire. La sezione ‘Istria e Dalmazia’, fra i ruderi delle Terme di Traiano, che noi – ragazzetti ardenti e incoscienti – chiamavamo ‘il Covo’ a memoria di quello dove, in via Paolo da Cannobio, a Milano Mussolini aveva la redazione de Il Popolo d’Italia, anno 1919, prima sede dei Fasci di Combattimento. Illusi d’esserne degni emuli, quando di sera s’usciva con il secchio la scopa la colla ad attaccare manifesti o ci si azzuffava con gli avversari di fronte alle scuole. E da dove partimmo, non ricordo esattamente quando (1962?), – un centinaio – per dare di botte sotto la redazione e tipografia de L’Unità e del Paese Sera nel quartiere di San Lorenzo chè ci veniva impedito tenere i comizi.
(La mattina successiva la polizia bussò alla porta della gran parte dei partecipanti allo scontro – feriti da entrambi i fronti – e se li portò via dietro la solita soffiata. Girò la voce che, con la nostra azione, avevamo fatto saltare accordi sotto banco tra i consiglieri del MSI e quelli del PCI al Comune di Roma. E qualcuno non ce l’aveva perdonata. Nulla di nuovo, già allora. Io fui esente perché frequentavo da pochissimo, ma avrei imparato e in fretta a conoscere le perquisizioni e gli interrogatori e le sbarre e i chiavistelli. Modesta carriera d’attivista. Questa, però, è altra storia).
Nella sezione, alcuni stanzoni e cupi cunicoli, a cui si accedeva scendendo dei gradini ricavati appunto da una parte delle antiche strutture romane, campeggiavano un paio di busti in bronzo del Duce. In quattro si faticava a sollevarli. Più che una sede politica sembrava di stare all’interno di un sacrario, il tempio di una religione catacombale e in armi. Il più pesante, si raccontava, l’aveva portato a spalla Zambo reggendolo con una mano e l’altra in tasca dove teneva una bomba a mano per difenderlo. Si dice che la Fede smuove le montagne – non so -, certo il Fascismo e il suo Capo per figure come Zambo erano l’asse che non vacilla, la pietra angolare e tanto loro bastava. Non sapeva leggere forse uno sgorbio la firma nulla sapeva di Corporazioni e della Socializzazione, nulla dei dibattiti di un partito becero e un po’ cialtrone, Evola e Gentile degli sconosciuti. Eppure… Su un giornale svedese – ne conservavo il ritaglio -, nel giorno in cui la salma di Mussolini venne restituita alla famiglia e a Predappio, due fotografie di Zambo davanti alla bara, in ginocchio e il volto rigato di lacrime. E mi chiedo se ho appreso più da ‘camerati’ come Zambo, in coerenza e fierezza, che dai ‘professorini’ in papillon forbiti nel dire arroganti e, al contempo, patetici fino ad essere, ‘sopravvissuti al proprio essere nulla.