Viva l’Italia, viva il socialismo
“con la barba di Bombacci/noi faremo spazzolini/per pulire gli stivali/di Benito Mussolini”
Genova 15 marzo 1945, Nicola Bombacci infiammava circa tremila camalli, operai dei cantieri navali e dell’induustria siderurgica pronunciando un discorso memorabile: “Compagni! Guardatemi in faccia, compagni! Voi ora vi chiederete se io sia lo stesso agitatore socialista, il fondatore del Partito comunista, l’amico di Lenin che sono stato un tempo. Sissignori, sono sempre lo stesso![…]Ero accanto a Lenin nei giorni radiosi della rivoluzione, credevo che il bolscevismo fosse all’avanguardia del trionfo operaio, ma poi mi sono accorto dell’inganno […]Il socialismo non lo realizzerà Stalin, ma Mussolini che è socialista anche se per vent’anni è stato ostacolato dalla borghesia che poi lo ha tradito […] ma ora Mussolini si è liberato di tutti i traditori e ha bisogno di voi lavoratori per creare uno stato proletario […]”.
Il fascismo rivoluzionario delle origini, il sansepolcrismo, il Zarathustra profeta dell’uomo nuovo dentro un modello sociale primogenito, quello della terza via, sintesi dialettica dello scontro di classe tra operai e borghesia parassita, quello che ergeva il popolo intero a proletariato rivoluzionario in marcia contro le demoplutocrazie europee, quel fascismo shock per il capitalismo usuraio, tornò prepotente sulla scena dopo l’8 settembre del ’43, la Patria era morta? W la Patria con in pugno le armi e fu guerra civile tra 800.000 rivoluzionari repubblichini e reazionari in camicia rossa. Il fascismo incarnava la rivolta del popolo italiano contro l’oppressione delle potenze straniere ma anche l’urlo verso l’intestino inerte del Giano liberal-socialista. Un modello da esportare ovunque nel mondo, una palingenesi umana sul nastro scorrevole della storia, non era una rivoluzione di classe né di odiosa purezza razziale, perché rivolta antropologica, catarsi forgiata col ferro e il sangue semi generativi dell’uomo in marcia nel guscio d’uno Stato etico.
Il 29 aprile del ’45 il corpo crivellato di Nicola Bombacci, tra i fondatori nel gennaio del ’21 del Pcd’I (primo nome del P.C.I.), pendeva a testa in giù legato alla tettoia d’un distributore di benzina a Piazzale Loreto, assieme ai cadaveri del suo amico romagnolo Benito Mussolini, di Claretta Petacci, Alessandro Pavolini e Achille Starace, scena di “macelleria messicana” l’apostrofò Ferruccio Parri.
Nel diluvio di libri, saggi, articoli che scroscia e scroscerà sul centenario del P.C.I., la nomenklatura rossa col corifeo dei suoi intellettuali lecca-lecca, relegherà Nicola Bombacci nel gulag dei cancellati dalla storia del Partito, un corpo scomodo sepolto per “indegnità politica”, d’altronde ne fu espulso due volte perché troppo rivoluzionario nel prospettare una saldatura tra il suo Pcd’I e il fascismo movimento in un discorso-sfida in Parlamento rivolto a Mussolini.
Lui, soprannominato il “papa rosso”, maestro elementare come Benito, socialista massimalista più di Muslén, compagno di Lenin nel ’17, lui deputato socialista, in seguito comunista, lui padre con Gramsci e Bordiga del Partito comunista d’Italia nato per scissione dal Partito socialista al XVII Congresso nazionale di Livorno, gennaio del ’21, lui segretario del Gruppo parlamentare comunista nel ’23, proprio era stato isolato dagli ordinovisti, poi messo all’uscio dalla grigia nomenklatura del Partito per quel discorso-scandalo di fusione rivoluzionaria. Riammesso nel Pcd’I motu proprio dal potentissimo Grigorij Zinov’ev (presidente dell’internazionale comunista) ne fu espulso definitivamente nel ’27 perché testardo continuava a cavalcare la tigre dell’unità fascio-comunista.
Il bolscevismo aveva deluso il barbuto ribelle di Civitella di Romagna, il proletariato non guidava le sorti della neonata U.R.S.S. anzi era vittima di una burocrazia oppressiva d’ogni anelito di vita, un inferno poliziesco dove mangiare era un privilegio per i reiterati fallimenti dei piani economici quinquennali del compagno Iosif Stalin.
Così sul finire degli anni ’20 s’era accostato a quel fascismo che non prometteva aurore mai sorte ma costruiva città nuove, modernizzava un Paese rimasto fermo sul binario, istituiva autentiche rivoluzioni sociali nel lavoro, operava in ogni settore per spingere l’Italia al timone del mondo come argomentava Ardengo Soffici.
Per il P.C.I. che tale resta nonostante il cambiar furbo di nome, ha ragione in questo Antonio Socci in un suo recente articolo, e lo resta soprattutto nell’aristocratica superbia della sua nomenklatura che tutto sa, tutto illumina, tutto dirige e soprattutto tutto governa. Adesso come allora è questa supremazia dei burocrati che conta, poi se il liberismo progressista è la nuova frontiera, che il capitalismo vinca purché sia politicamente corretto, magari sul modello cinese, va tutto bene purché avvenga nell’aia di partito sotto l’occhio vigile del grande fratello, punto.
“Viva l’Italia, viva il socialismo” par che gridasse Nicolino Bombacci crivellato di colpi dai partigiani in quel 28 aprile del ’45 a Dongo, era il socialismo della Carta di Verona, il suo socialismo, eredità da cogliere, sviluppare per ricostruire testardi una Patria comune.