A non rivederci più, signor Sergio!

 

A non rivederci più, signor Sergio!

Qualcuno, in quest’agorà rumorosa e promiscua che è Facebook, si è chiesto se gli applausi alla Scala per Mattarella – trascorsa appena una settimana – siano già terminati.  L’ironia è fuori posto. Ci vuole rispetto. Non so se ci si rende conto di quanta storia attraversi, come un fascio di raggi X, quest’uomo dall’aria mite e sfuggente. L’averlo associato alle cinquanta sfumature di grigio del film omonimo è stato un errore. In realtà, Mattarella appartiene ad uno dei casati più illustri della Trinacria. Le dinastie sono una specialità dell’Italia insulare, con l’unica eccezione dei Letta, che provengono dall’Abruzzo. L’asse Cossiga-Berlinguer ha imperversato in Sardegna dando al Paese un ministro degli Interni  (che, come custode degli arcani diluiti negli anni di piombo, sarebbe stato ricompensato col comodato d’uso del Quirinale), il capo dell’Opposizione comunista, un ministro della Pubblica Istruzione, e certa Bianca, un’impiegata della RAI, diventata famosa per l’ascendente che esercita sui montanari e sul popolo delle malghe: Bianca, perché anche nella scelta dei nomi, i grandi casati, desiderosi di perpetuarsi, dimostrano di saper mettere il piede in due staffe. Cossiga era cugino di Enrico Berlinguer benché latrassero l’uno contro l’altro attraverso la cortina di ferro. Dei Letta, uno, Gianni, faceva il Richelieu alla corte di Berlusconi. L’altro, Enrico, suo nipote, è alla testa del PD dopo essere stato, a cavallo tra il 2013 e il 2014, a capo del Governo.

Provo disagio nel constatare come certe famiglie, composte anche da fratellastri e da cognati, riescano sempre a sbancare ogni volta che giocano, mentre è già tanto per quasi tutti gli altri che trovino i soldi per azzardare una puntata. Se, infatti, sostengo che i Berlinguer hanno monopolizzato tutta l’intelligenza politica secreta dalla Sardegna, faccio del razzismo, giacché ciò implica che tutti gli altri sardi, messi insieme, ne hanno molta di meno. Se, al contrario, faccio timidamente notare che tale fenomeno non ha niente da spartire con la genetica, allora insinuo che esso sia dipeso da qualcos’altro, e mi espongo fatalmente a delle domande alle quali non vorrei rispondere, ammesso che ne fossi capace. Il discorso vale anche per Sergio Mattarella. Il padre, Bernardo, deputato all’Assemblea Costituente e pezzo da novanta della DC, fu difeso da Giovanni Leone, il futuro presidente della Repubblica, nella causa intentata contro Danilo Dolci che lo aveva accusato di collusione con la mafia e che pagò, in quanto diffamatore, con la condanna a due anni di galera. Sulla stessa frequenza – di “voci” che non avevano, o non avrebbero,  trovato alcun riscontro nelle aule giudiziarie – s’inserirono, da due mondi diversi, e in tempi molto sfalsati, Gaspare Pisciotta, il braccio destro del bandito Giuliano, che collocò il nome di Bernardo Mattarella tra quelli di coloro che avevano architettato Portella della Ginestra, e Francesco Cossiga il picconatore, il quale, in un certo senso rincarò la dose affermando che Piersanti (il figlio di Bernardo e il fratello di Sergio) era stato “punito” per essersi dimenticato dell’aiuto che l’”onorata società”, rispondendo alle premure del padre, gli aveva prestato per farlo arrivare ai vertici della Regione siciliana.

In assenza di prove, si è trattato certamente di un cicaleccio maligno, ma l’inciso mi è servito solo per vincolare l’attenzione al fatto che alcune famiglie dispongono – adesso che siamo entrati nell’era dei satelliti e dell’intelligenza artificiale –  della magica attitudine, propria di alcuni nobili casati del ‘400 e del ‘500, come gli Este o i Borgia, a fare il pieno delle benemerenze politiche, lasciando intorno a sé una distesa di cocci. Non sarà comunque per questo motivo che il fior fiore dell’aristocrazia milanese ha applaudito alla Scala, per cinque minuti, un’eternità, l’attuale presidente della Repubblica in scadenza di mandato, senza neppure che avesse accennato un gorgheggio. Quel suo incedere quaresimale, a capo chino, la pacatezza di un elettrodomestico collegato alla tensione sbagliata. C’è una scena de “Il Gladiatore” in cui Commodo, rivolgendosi al nipote Lucio, un bambino, parla di “piccole api industriose” e di “piccole api affaccendate”. Lì, nel film, per rappresentare il silenzioso lavorio di persone, avvolte dall’ombra, che imbastiscono dei complotti. Qui, la similitudine, depurata dei suoi aspetti più foschi, è riproposta per ricordare che tutta l’abilità di Mattarella è consistita nel muoversi facendo finta di restare immobile e di parlare facendo finta di starsene zitto, perché anche lo sforzo che si profonde, apparentemente per non compiere delle scelte, è frutto in realtà di una scelta che determina il destino delle cose, trattenendole, ad esempio, all’interno di un tempo che non è più il loro, come nel caso del Parlamento, in mano alle Sinistre e ai sinistri, che il signor Sergio si è rifiutato di sciogliere, nonostante i numeri e lo spartito non siano più quelli del 2018, l’ampiezza di un’era geologica.

Mattarella non ha mai avuto, dacché fa politica, il passo pesante: non gli anfibi, così cari a gente come Cossiga, ma le mezzepunte del “Lago dei Cigni”, il capolavoro all’uncinetto eseguito con muliebre applicazione in un angolo della stanza, accanto alla finestra su cui indugia l’ultimo sole. Quando fu ministro della Pubblica Istruzione fece sparire il maestro unico, una figura mitologica, che si è impressa, indelebile, nella memoria di tutti coloro i cui anni finiscono in “anta”, una specie di secondo padre o di seconda madre, per introdurne tre su due classi: con l’ineluttabile conseguenza che, mentre prima di allora – siamo nel 1990 – si poteva tentare di capire chi fosse il responsabile dell’insuccesso di una classe o di un singolo alunno, negli anni successivi tale possibilità si sarebbe dissolta nel gioco delle tre carte messo in atto da soggetti inevitabilmente incapaci, per una molteplicità di ragioni, di sviluppare una strategia comune. La storia della Scuola è punteggiata di questi colpi di scalpello, che si susseguono, all’apparenza del tutto innocui, sulla scia della devastazione subita dall’istituzione coi decreti delegati del ’73. Dinamite ideologica, e piccoli interventi “a latere”, ma col preciso intento di realizzare la “cancel culture”, ovvero la cancellazione della cultura, che in Italia non si traduce solo nell’incontenibile desiderio di abbattere la stele “fascista” del Foro Italico: c’è il precedente – di cui solo adesso qualcuno si sta accorgendo – di un sistema, quello scolastico, che, nelle sue linee generali, funzionava alla perfezione e che si è voluto togliere di mezzo perché era sopravvissuto al Ventennio.

In quella mossa, così poco importante come sembrava, di ritirare dalla scacchiera il maestro unico, c’è tutto Mattarella: anche nel decretare, come ministro della Difesa, l’abolizione della leva obbligatoria, fatta passare come una misura necessaria per sgravare il bilancio dello Stato della zavorra e, contestualmente, per migliorare l’efficienza delle Forze Armate. La verità era, ed è, che l’esercito del popolo (quello con cui, ad esempio, Israele ha vinto tre guerre) era incompatibile col progetto di un’Europa aggiogata alle élite ed è, invece, in carattere con l’interesse di tali élite a tenere sotto di sé delle masse amorfe, che non hanno né educazione né patria.

Volendo perciò fare l’analisi spettroscopica degli applausi che la Milano-bene ha tributato giorni fa a Mattarella, potrebbe venir fuori che per i primi minuti essi riguardavano, in modo sommativo, tutta la sua carriera; che il terzo gli era dovuto per aver contribuito a sfasciare la Scuola pubblica a vantaggio di quella privata, frequentata dai figli del commendatur Brambilla, dove, se non studi, te ne fanno uno così; che il quarto era per aver propiziato la piena fruibilità delle Forze Armate da parte delle oligarchie al potere; il quinto -dulcis in fundo – per aver voluto con un’ostinazione alfieriana un trattato di cooperazione rafforzata con la Francia, laddove il rafforzamento si scrive come intensificazione dei rapporti coi transalpini e si legge, invece, come ulteriore, inspiegabile atto di sottomissione a Parigi.

Ecco, dunque, spiegati i cinque minuti di applausi a Mattarella.

Aspetto fiducioso “che gli vengano i cinque minuti” anche a coloro che dei Mattarella e di tanti altri politici come lui non ne possono più.

 

Immagine: https://www.farodiroma.it/

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