Non si cambia il mondo con le idee, ma con la consapevolezza di come agiamo in esso.
Come se si chiedesse a qualcuno di disegnare un albero. A lavoro compiuto, lo osserveremmo notando le differenze di stile, tratto, e colori rispetto agli alberi disegnati da altri.
Sarebbero sufficienti alberi disegnati per prendere atto degli universi diversi che siamo. Basterebbe riconoscere che ogni disegno, tra cui il nostro, ha pari dignità con gli altri.
Così, potremmo riconoscere che la comune e prediletta alternativa all’osservazione, normalmente messa in essere, è l’affermazione.
Affermazione significa stimare quali alberi, posizioni e idee altrui si allineano ai nostri pensieri e intenti, quali possono giacere nel campo che ogni posizione genera.
Ogni campo ha le sue regole, tutte e sempre autoreferenziali. È un fatto inconsapevole, in quanto si rifanno a morali, norme e consuetudini concepite come le sole ufficiali e degne di dignità per dirimere questa o quella questione.
Tuttavia, sempre attraverso la modalità dell’osservazione, possiamo riconoscere che, così procedendo, dimostriamo di essere preda di un incantesimo. È così quando l’interesse personale, che include quello di gruppo, si rifà a luoghi comuni vissuti come dogmi. L’ideologia è un’espressione del modo dell’affermazione. Non a caso essa e solo essa conduce alle guerre. Essa e solo essa, mantiene la storia come storia di conflitto. Essa e solo essa impedisce un’evoluzione spirituale dell’uomo. E, alla pari, le religioni. Seguono tutte le altre, prive di manifesti ma ricche di pari determinazione dogmatica.
In tutte l’uomo sparisce, restano le idee pietrificate. Premessa per la fine del mondo. Proprio di quello che agitiamo dentro ogni pietra che scagliamo.
Così sono i giudizi, frutto dell’affermazione. Veri sassi scagliati in nome della propria ragione, argomentata o meno. L’inconsapevolezza del nostro giudizio è una rampa di lancio di missili utili solo alla nostra biografia, bombe su quella del prossimo. Che altra categoria non riempiono se non quella dei danni collaterali.
Insieme al giudizio, nascosto nel mondo che creiamo, si muovono le pretese. Intenti a noi stessi oscuri che ci impediscono di osservare il mondo come una sequela di fenomeni, di accettare come di pari concretezza e ragione tutto ciò che le pretese non ammettono e che scartano. Le pretese sono stampi entro i quali ci riproduciamo ed entro i quali ospitiamo solo ciò che non corrompe la purezza che riteniamo di essere. Purezza nuovamente composta da ideologie e morali, da interessi personali e luoghi comuni, da dogmi e presunta oggettività.
Se nel mondo meccanico, amministrativo, l’oggettività è uno strumento che fa il suo servizio, mutuata al contesto relazione non è che un danno garantito, una miccia dall’accensione indipendente.
Finché non diveniamo disponibili, finché non sviluppiamo le opportune consapevolezze, finché non siamo all’altezza di riconoscere che la realtà è nella relazione, che questa è negata finché restiamo soggiogati dal sortilegio dei nostri sentimenti, non saremo altro che operatori, fautori, manutentori di una condizione di vita e culturale che altro non può che perpetrare lo stato di delusione e sofferenza, nonché di successo ed esaltazione. Ovvero di una condizione fuori controllo, di personalità fuori equilibrio.
Diversamente dal pensiero ideologico, la rivoluzione, per essere sociale, deve essere personale. L’alternativa è vagare in un mare senza approdi.