Alfie, un sibilo tonante

 

Alfie, un sibilo tonante

È una vicenda sulla quale si può indagare a lungo, con ricerche di vario genere e in maniera più o meno approfondita, a seconda di quanto i media hanno contribuito a diffondere e quanto di vero, perciò non intendo descrivere il caso del piccolo Alfie e della sua famiglia, tanto meno la diatriba a livello giuridico e medico. Sinteticamente: Alfie Evans è un bimbo di nemmeno due anni, affetto da grave patologia neurodegenerativa non ancora diagnosticata, senza classificazione specifica in letteratura medica. A seguito dei test effettuati sul piccolo paziente, usando le parole di Don Roberto Colombo, docente di biochimica alla facoltà di Medicina e Chirurgia A. Gemelli, “nessuna possibilità terapeutica è razionalmente prospettatile (neppure quella sperimentale)”.

Quello che la Bioetica Personalista insegna, ciò che il buon senso, oramai perduto, annuncia, è che un paziente inguaribile non è un paziente incurabile. Prendersi cura e accompagnare sono atteggiamenti sempre possibili, mentre guarire non lo è, motivo per cui, nel caso in questione, la linea comune era quella della palliazione che non consiste in una camuffata eutanasia, quindi nel mettere in atto azioni intenzionalmente omicide, ma nella somministrazione di analgesici insieme al mantenimento dei supporti vitali basilari poiché, anche se si dovesse accorciare la vita di un paziente, quello sarà l’effetto non voluto, non il fine ricercato. Un vero accompagnamento, in particolare nelle condizioni più disperate, misconosciute dagli uomini, è prendere coscienza che ciascuno di noi si accomuna ai suoi simili nelle origini, nella filiazione (ovvero tutti siamo figli) e nella morte (con essa sofferenza, dolore), pertanto è razionale e cosciente, diretto al vero bene integro della persona quell’agire che non pretende di conferire, ma umilmente attende di sostare dinanzi a queste due incommensurabili dimensioni dell’esistenza: origine e fine.

La famiglia e con essa il mondo intero, attento all’inganno malizioso dell’omologazione amorfa, non sferrano colpi a tentativi ipotizzabili, sproporzionati, nefasti, si appellano alla cosa più banale: possiamo essere con nostro figlio nella sua vita terrena finché ci è dato farlo? Di per sé non sarebbe una richiesta, ma un fatto da compiersi. Chiaramente, quando si tratta di bioetica (per sua natura stessa, interdisciplinare) occorre essere lucidi sul fatto che essa rimanda a implicazioni giuridiche, istituzionali, economiche, filosofiche, teologiche, oltre che mediche ed etiche, per questo non si è isolati neanche nel volere o nelle proprie convinzioni, giuste o sbagliate che siano, perché si è in un contesto pratico che incide su altre coscienze, altre responsabilità, altri nomi, tutti da considerare uomini, potenti e fragili allo stesso tempo. Tutti ugualmente miseri; ciascun paziente una risposta. 

Quando manca la consapevolezza piena dell’identità umana si perde in carità, perché subentrano parametri pigri d’amore, impegnati dal benessere esponenziale ed è qui che un paziente diventa caso clinico, il corpo sola carne, mentre lo spirito una costruzione idiopatica. Avviene una lacerazione totale. Così, dietro le parti non sussiste il tutto, ma la funzionalità; perduta l’utilità viene meno l’uomo, si alza il sipario e appare l’economia di corpi, su corpi. Simili logiche rimandano alle due tipologie eugenetiche attive nella nostra epoca: quella positiva di miglioramento senza debolezza; quella negativa di scarto senza vita.

Non ho dubbi sul fatto che Alfie costituisca un labirinto anche medico, dai corridoi stretti e pieni di incognite, del quale abbiamo minime nozioni; non avendo, inoltre, sentito nemmeno una voce da parte del personale sanitario protagonista, evito di scivolare in attivismi pieni di rabbia, ghigliottinando senza processo (per scarsità di informazioni), attenta al fatto che si è tentato un avvicinamento bioetico, filosofico e spirituale per gli operatori, lo staff medico, direttamente coinvolti nell’azione eutanasica, perciò ripeto a me stessa che siamo talmente piccoli da non vedere nemmeno le nostre colpe, a volte. Per tale motivo abbiamo bisogno di pentirci, di essere perdonati per la bellezza spogliata di sana vergogna, anche noi, malati, essere condotti -in bioetica, crocevia di esistenze, direi con una certa urgenza e necessità imperativa- al vero Bene per la creatura che si presta alla fiducia, si consegna all’umanità del servizio alla Vita, alla persona. 

Dov’è Casa?

Uomo, sai sostare in te stesso? L’apatia è un macigno troppo pesante per te, cerca conforto. 

Metabolizzo fra ciò che posso sapere e quello che manca, chiedendomi quale sia la la forza della pena, ed è qui che l’istante focalizza l’innocenza in mezzo al conflitto: un bimbo, una famiglia che ama suo figlio, ha radunato moltitudini estranee rendendole fratelli e sorelle, ricordando che non siamo impotenti, siamo “gocce nell’oceano”, una vastità che abitiamo e incarniamo, ospiti e custodi. In tutto questo, quale singolare attitudine alla mercificazione viene somministrata da uomini ad altri loro pari in dignità, diritti e rispetto? C’è il vuoto oltre quella soglia, la soglia del prodotto: una volta divenuta nuova definizione dell’uomo, nulla sembrerà una lesione perché tutto è concesso quando facciamo e non agiamo, quando annichiliamo la grandezza nel prodotto. Il riduzionismo può solo il possesso, poiché mediante quest’ultimo soddisfa il piacere, ma fuori di esso torna l’angoscia ed è a questa che il possesso non riesce a rispondere, così come accade ogniqualvolta orecchiamo distratti il sibilo fastidioso dell’unico reale testimone di noi stessi: la coscienza, quell’intimo dialogo fra noi con noi stessi e fra noi con Dio.

Torna in alto