APPROFONDIMENTI: 1989 – 2019 l’accelerazione della storia
Sono passati trent’anni dal fatidico 1989 in cui cadde il muro di Berlino, mandando in frantumi il comunismo reale. Lo storico evento fu preceduto di qualche mese da un articolo di uno sconosciuto scenarista americano di sangue giapponese, Francis Fukuyama, che preannunciava la fine della storia attraverso la vittoria finale del modello liberaldemocratico fondato sul mercato. Invero, con una certa prudenza, Fukuyama pose il punto interrogativo al suo intervento, apparso sulla rivista The National Interest. Formulò la domanda, ma si dette la risposta, concludendo che gli anni 80 del secolo XX, segnati dal liberismo economico di Ronald Reagan e Margaret Thatcher- si potrebbe aggiungere la virata liberal centrista del socialista francese Mitterrand nel 1983- non rappresentava solo la fine di un periodo caratterizzato dalla continua avanzata del modello comunista, ma l’epilogo della storia in quanto tale.
Per sostenere la sua tesi, Fukuyama utilizzò con scarso acume categorie di filosofia della storia tratte da Hegel, rimasticate attraverso le piste contorte del pensiero di Alexandre Kojéve. Nichilista a tutto tondo, Kojéve sosteneva la natura irrimediabilmente violenta dell’uomo, da reprimere con una ferrea disciplina sociale in grado di imporre l’assoluta uguaglianza in un mondo in cui le macchine sostituivano il lavoro umano. Il destino sarebbe il ritorno a una condizione preculturale, una vita pressoché animale in una prospettiva di fine della storia. Una tesi che ha influenzato settori della cultura americana, adattata da Fukuyama alla vittoria politica del sistema di mercato. Il mercatismo vive in un presente continuo, che presuppone non la fine, bensì l’oblio della storia, funzionale si suoi fini. Nessun passato, indifferenza per il futuro, è questa la finis historiae. Un’umanità ignara eternamente bambina, come capì Cicerone due millenni or sono.
Raramente una tesi tanto errata quanto presuntuosa e male argomentata ha avuto il successo di quella di Fukuyama, il cui testo divenne celebre, influente e citatissimo, allargato poi dall’autore in un libro del 1992, La fine della storia e l’ultimo uomo. Ben più serio fu Lo scontro delle civiltà di Samuel P. Huntington, apparso nel 1996, la cui tesi centrale era che la principale fonte di conflitti nel mondo uscito dalla rotta comunista sarebbero state le identità culturali e religiose.
Dal 1989, la storia non si è fermata all’unilateralismo dell’unica superpotenza, gli Usa, ma ha conosciuto varie accelerazioni. Affermiamo che non è mai corsa tanto velocemente. Basta rammentare l’irruzione della potenza cinese, l’avanzata dell’India, il tentativo Usa di fare della Russia una provincia del suo impero, sventata solo dall’avvento di Vladimir Putin, l’attentato dell’11 settembre 2001 a New York e la successiva guerra dell’Afghanistan , la seconda guerra del Golfo mascherata da operazione di polizia internazionale, la destabilizzazione dell’Africa , con conflitti diffusi e potenti flussi migratori, l’islamismo, la guerra nel cuore dell’Europa, prima nei Balcani, più recentemente in Ucraina.
Potremmo aggiungere il neocolonialismo francese, i regimi bolivariani in Sud America, l’Unione Europea con le tappe del mercato unico (1993) e dell’introduzione della moneta unica Euro (2002), l’enorme impatto della liberalizzazione del commercio determinata dagli accordi di Marrakesh del 1994, che trasformarono il vecchio GATT (Accordo Generale sulle Tariffe e il Commercio) nel WTO, Organizzazione Mondiale del Commercio. L’entrata della Cina nel WTO nel 2001, propiziata dagli Usa con evidente miopia, ha prodotto la seconda fase della mondializzazione economica, avviata subito dopo l’implosione del mondo comunista. Più di recente, la storia ha subito un ulteriore strappo con l’uscita della Gran Bretagna dall’Unione Europea, mentre il Terzo Millennio si è caratterizzato per l’immenso impatto delle reti informatiche, di Internet e per il potere tecnologico delle mega corporazioni della Silicon Valley californiana.
La previsione storica di Fukuyama si è rivelata per quella che era: l’articolo di successo di un pensatore di scarsa profondità. Al contrario, si deve constatare che la caduta del muro di Berlino, la generalizzazione della società di mercato, la prevalenza dell’economia finanziaria e l’irruzione dei giganti tecnologici, protagonisti della terza e quarta rivoluzione industriale, hanno determinato, nell’ampia porzione di mondo dominata dagli Usa, la fine della politica, sostituita dall’egemonia dell’economia attraverso la privatizzazione del mondo ( Jean Ziegler); il potere senza confini del sistema finanziario; l’inusitata capacità di controllo ed orientamento della popolazione da parte del l’apparato tecnologico; la riduzione ad un unico modello di organizzazione sociale e politica; il liberismo globalizzato senza confini, accompagnato da una democrazia sempre più formale ed impotente, con gli Stati nazionali ridotti ad involucri privi di sovranità, assoggettati al mercato misura di tutte le cose.
In quel senso, Fukuyama fu profetico, ancorché preceduto dalle intuizioni di Martin Heidegger, il cui criptico linguaggio segnalava “l’umanità dell’uomo e la cosalità delle cose dissolte nel calcolato valore commerciale di un mercato che si estende fino ad abbracciare la terra come mercato mondiale”. Sino agli anni Ottanta il liberalismo aveva avuto dei contraddittori ideologici rilevanti. Il comunismo risultava particolarmente attrattivo per imponenti masse umane, una visione del mondo che a sua volta prospettava la fine della storia attraverso la vittoria del proletariato, la classe levatrice di una rivoluzione volta a creare l’uomo nuovo. Il merito di Fukuyama fu di cogliere la crisi non solo pratica, ma ideale del comunismo, rivelando che nel marxismo leninismo non credevano più neppure i dirigenti al potere in Urss e in Cina.
Negli anni seguenti, lo studioso americano ha considerevolmente mutato le sue convinzioni. La sua intuizione fu il concetto di decadenza politica, ossia la constatazione che le società liberal liberiste non avanzano necessariamente verso il meglio, ma possono percorrere un cammino all’indietro. E’ ciò che sta accadendo con tutta evidenza, per la crisi progressiva delle democrazie, svuotate dal potere del denaro, sottoposte ad oligarchie esterne, immobilizzate dall’”alternanza senza alternativa” ( Jean Paul Michéa) tra forze politiche sempre più uguali, elette con metodi che tendono ad escludere non solo dalla possibilità di accedere al governo, ma dalla rappresentanza parlamentare le forze ostili al sistema.
La storia ha seguito il suo corso, accelerando il moto, ma espellendo la politica, intesa come spazio pubblico, partecipazione, discussione intorno a progetti alternativi, concreta capacità di decisione degli Stati, conferendo il potere reale a organismi transnazionali come la Banca Mondiale, il WTO, Il Fondo Monetario Internazionale, il sistema delle banche centrali. La novità – la storia è corsa in senso contrario agli interessi dei popoli – è la privatizzazione del potere. Immensi monopoli dominano gli onnipotenti mercati finanziari, le istituzioni bancarie privatizzate emettono insindacabilmente la moneta, creando e moltiplicando il meccanismo truffaldino del debito sovrano. Le corporations multinazionali hanno bilanci, volumi d’affari, influenza superiore a quella di molti Stati nazionali. I giganti tecnologici hanno abbattuto ogni confine, conquistato l’extraterritorialità, cacciato ogni competitore, riuscendo ad istituire una censura privatizzata delle idee proibite, quelle in qualsiasi modo ostili al dominio liberale, liberista, libertario.
Bloccata la politica, si fa storia l’egemonia di una triade costituita dall’economia, dominata da pochi colossi multinazionali, dalla finanza, che tiene in pugno gli Stati con l’arma del debito e il ricatto dei mercati deterritorializzati, e dalla tecnologia, mai così potente e pervasiva nella storia umana. Le disuguaglianze economiche, nonostante due secoli di battaglie, non sono mai state tanto acute. Un pugno di colossi assommano il reddito di centinaia di milioni di esseri umani, tanto che uno degli uomini più ricchi del mondo, Warren Buffet, ha potuto affermare che dopo il 1989 si è svolta una lotta di classe alla rovescia, vinta dalla plutocrazia. La moneta privatizzata crea se stessa e si riproduce in maniera automatica. La miliardaria francese Liliane Bettencour, erede dell’impero Oréal, nella sua vita non ha lavorato un giorno, ma tra il 1990 e il 2010 il suo patrimonio è passato da due miliardi di euro a venticinque.
L’eclissi della politica ha creato un vuoto ideale riempito da un formidabile mutamento del costume in ogni ambito della vita pubblica e privata. La dimensione che in Francia chiamano “societale” ha subito cambiamenti rivoluzionari, tali da rendere irriconoscibile il panorama umano, valoriale, la vita quotidiana, penetrando profondamente nella legislazione e nella mentalità corrente. Fukuyama ha fallito clamorosamente nelle sue previsioni: l’Occidente ha mutato pelle in maniera totale, probabilmente irreversibile, a partire dall’indifferenza o dall’aperta ostilità verso se stesso, che Roger Scruton ha definito oicofobia.
La velocizzazione della storia, in Occidente, ha riguardato eventi sociologici ed antropologici di vastissima portata, che per la loro estensione, sono diventati storia. Il primo, l’elemento che contiene ogni altro, è Internet. Nato da ricerche militari americane, è diventato il fenomeno di massa che impronta il secolo corrente dopo il 1989. Senza il fulmineo sviluppo della grande rete, le trasformazioni esistenziali dell’uomo occidentale, divenuto una specie distinta dall’antico homo sapiens sapiens, non avrebbero assunto il carattere di massa che sperimentiamo.
Parliamo di almeno quattro fenomeni storici: il femminismo radicale e l’omosessualismo sostenuto dalla cosiddetta teoria del gender (il genere come libera scelta culturale staccata dal sesso biologico); il relativismo morale e culturale, figlio dell’individualismo liberal libertario; la truffa del debito finanziario manovrata dalle centrali finanziarie che ha reso Stati e popoli ostaggi di un pugno di banchieri. Infine, come una specie di cornice o di collante, quella che possiamo chiamare l’era dei diritti.
Il femminismo ha conosciuto varie ondate. L’ultima ha radicalizzato le sue istanze, nel passato del tutto ragionevoli, oltrepassando le teorie sulla rivoluzione sessuale di Germaine Greer, esposte sin dagli anni 70 nel celebre L’eunuco femmina. La stessa Greer riconobbe gli errori denunciando un altro sintomo storico, il calo demografico, “suicidio della società occidentale per effetto delle politiche di controllo della natalità”. L’esito lo andiamo verificando nella seconda decade del secolo XXI, in cui più evidente è la sostituzione etnica delle popolazioni bianche da parti di genti provenienti dal sud del pianeta.
Kate Millet elaborò nel 1995 la teoria del patriarcato in Politica sessuale, secondo cui ogni relazione sessuale è una relazione di potere, dunque politica. La via era aperta per l’attivismo radicale di Shulamith Firestone, che ha trasformato in guerra dei sessi la lotta di classe tramontata con il comunismo. L’attacco alla maternità- fondamento biologico di ogni antropologia – si radica nella tesi che si tratta della forma radicale di oppressione della donna per la sua funzione di gestazione e educazione dei figli. Occorre pertanto farla finita con la famiglia “biologica” e superare il tabù dell’incesto per eliminare “le classi sessuali”. Ingegneria sociale dura e pura, associata all’ecologismo estremo, espressa nel Manifesto femminista del 2018 pubblicato nella New Left Review.
Evidente è la saldatura con l’individualismo che dissolve la società dopo aver schiacciato il concetto di comunità. La post modernità inaugurata dal 1989 ha sostituito i diritti sociali, conquistati in lunghe lotte collettive, con i diritti individuali, presentati come liberazione dai vincoli passati, progresso, emancipazione, opportunità. Il vangelo neo liberale ha spazzato via la coesione familiare, quella sociale e ogni identità collettiva, riconfigurando il linguaggio, modificando i significati, inaugurando l’autocensura attraverso la correttezza politica, ovvero la pratica di cambiare nome ai concetti per rovesciare valori, principi, credenze. Non è più sociologia, ma storia. Privatizzata la dimensione etica, avanza quella del modo di produzione di beni e servizi. L’economia di mercato si trasforma in società di mercato, indiscutibile, fissa, in cui la forma merce domina ogni principio, destituendo l’uomo dalla sua centralità. Poiché l’avere fagocita l’essere, è il denaro il motore della storia, protagonista assoluto delle nostre vite.
Privatizzato come tutto il resto, ha sconfitto il potere sovrano degli Stati, che, come sapeva Niccolò Machiavelli, non è nulla senza il controllo della moneta e un esercito in grado di difendere la nazione. Nell’ultimo trentennio, liberato dal timore di una svolta marxista, il potere finanziario ha preso il controllo dei governi imponendo il più radicale dei monopoli, la creazione del denaro. E’ il sistema finanziario, con la sua cupola, la Banca dei Regolamenti Internazionali, l’associazione delle banche centrali, a creare il denaro, prestarlo a strozzo agli Stati, determinando esso stesso il tasso di interesse. Attraverso tale colossale inganno, il debito degli Stati non è più un affare tra governi e cittadini risparmiatori acquirenti di titoli pubblici, ma un rapporto diseguale tra finanza – falsa creditrice – e Stati nazionali, i cui cittadini lavorano per rimborsare non il debito, ma gli interessi composti. Per la prima volta nella storia, uno Stato può fallire, esattamente come un’azienda. E’ capitato all’Argentina alla fine degli anni 90, ma lo spauracchio è ciclicamente agitato nei confronti dei paesi dal debito elevato, come l’Italia.
Karl Marx comprese i meccanismi finanziari prima di altri. “Il debito pubblico, in altri termini l’alienazione dello Stato, marca con la sua impronta l’era capitalista. La sola parte della sedicente ricchezza nazionale che entra realmente nel possesso collettivo dei popoli moderni è il loro debito pubblico. Il credito pubblico, ecco il credo del capitale. Così la fede nel debito pubblico prende il posto del peccato contro lo Spirito Santo, una volta l’unico imperdonabile.” Il credito – che per noi è debito! – sostituisce il credo. Non vi è miglior definizione per il mondo moderno. Concluse tuttavia con un grossolano fraintendimento, alla base di molti errori dell’universo comunista: “il doloroso mistero del debito estero si risolve in un furto di plusvalore fra capitalisti, del quale alle masse oppresse non potrebbe importare meno; la cancellazione del debito estero sarebbe nient’altro che un favore alle borghesie locali che l’hanno contratto, quel che c’interessa è la cancellazione del sistema globale di produzione del plusvalore per mezzo di forza-lavoro.”. Abbaglio fatale: il furto del sistema-debito è a carico dei popoli e di ogni singola persona.
La truffa del debito, unita alla globalizzazione liberista e allo sviluppo delle tecnologie informatiche oggetto di immensi monopoli privati (Google, Facebook, Apple, Amazon) è il nucleo forte del potere contemporaneo, di cui l‘estensione illimitata di diritti civili sempre nuovi costituisce la copertura per le masse, distolte dal comprendere la realtà del sistema, incatenate al consumo compulsivo di diritti soggettivi che in realtà sono capricci dei ceti dominanti, il cui unico limite è il reddito per poterli soddisfare.
Negli ultimi tempi circola l’assurda tesi secondo cui l’era dei diritti sarebbe erede della scuola filosofica di Salamanca del XVI secolo. In effetti, i suoi esponenti, innanzitutto il domenicano Francisco de Vitoria, gigantesca figura teologica, in risposta alla scoperta del continente americano, formularono un primo elenco di diritti umani validi anche per le popolazioni assoggettate. Diritto alla vita, alla famiglia, alla proprietà, alla libertà religiosa, al bene comune, alla partecipazione politica, alla libertà collettiva: la riaffermazione della legge naturale cristiana incardinata dal tomismo. Nulla in comune con gli pseudo diritti arbitrari, ideologici, niente affatto naturali, prodotti dalle officine infraumane o direttamente antiumane del libertarismo alleato con i cascami di un neomarxismo spogliato della dimensione comunitaria e sociale, nell’interessata compiacenza delle centrali liberiste.
Quella esposta in estrema sintesi è una fotografia dell’Occidente a trent’anni dall’evento chiave della seconda metà del XX secolo, il crollo comunista, i cui effetti sono risultati del tutto opposti a quelli prospettati da Fukuyama. La storia corre più forte che mai, qui e nel resto del mondo. E’ la politica ad essersi arrestata nella gabbia di un’affermazione che nega la capacità dell’uomo di modificare la società. There is no alternative, non c’è alternativa, ripetono chierici e servitori dell’ordine globale liberista sorto dal 1989. Se così fosse, sarebbe finita non la storia, ma l’umanità nella sua natura “politica”, comunitaria, dotata di sentimenti, senso morale, retta ragione. La riduzione di tutti e di ciascuno a esseri solitari, egoisti, dediti esclusivamente alla ragione strumentale, schiavi del freudiano “principio di piacere” è la conseguenza di una tragica affermazione di Margaret Thatcher nei cruciali anni 80, divenuta programma politico realizzato: non esiste la società ma solo individui.
Se così fosse, sarebbe davvero la fine. La corsa, tuttavia, non si arresta, non esiste né un senso deterministico della storia né una sua conclusione. La vicenda umana va dove l’umanità la conduce. L’accelerazione è la cifra dell’epoca nostra; trent’anni sono molti, ma non sono granché dinanzi al passato che ignoriamo e al futuro che non sappiamo immaginare. Il dente della storia, scrisse il poeta Aleksandr Blok, è più avvelenato di quanto pensiamo. Distruggendo, restiamo schiavi e la distruzione della tradizione è anch’essa una tradizione. Un paradosso che si attaglia assai bene al tempo nostro, ma il romanzo avrà un seguito. Il millenarismo liberista finirà e diventerà un episodio della storia umana. Fukuyama sarà ricordato come un fortunato, mediocre funzionario del potere, intento a formulare profezie che si autoavverano per coazione a ripetere ma non resistono al tempo, alla storia scritta dagli uomini.