APPROFONDIMENTI: Conte, la UE e il gatto di Schroedinger
Siamo, purtroppo, al bollettino di guerra. Le cifre quotidiane dei morti e dei contagiati sono talmente drammatiche da mettere in ultima fila giudizi, commenti, dietrologie del Covid 19. Forse tacere per un minuto, a partire da noi, da me, avrebbe più senso della verborrea che ha colto tutti, per rispetto delle vittime e dei tanti che danno corpo e anima per soccorrere i malati. Il silenzio si addice al professor Conte, primo ministro, che, al contrario, annuncia che l’Italia resterà chiusa per virus. Sbarrata, da oggi, anche al lotto e alle lotterie e a non sappiamo quante altre attività. Chiusa, ma aperta, socchiusa, con fenditure. “Ma anche”, come ai tempi di Veltroni, il John Kennedy de noantri. L ‘Italia al tempo della peste silenziosa è come il gatto di Schroedinger, che era vivo e insieme morto.
Per illustrare il principio di incertezza della meccanica quantistica, lo scienziato austriaco Erwin Schroedinger ideò un esperimento, al quale gradiremmo sottoporre il capo del governo. Un gatto è chiuso in una scatola dove un meccanismo può fare o non fare da detonatore all’emissione di un gas velenoso. Secondo Schrödinger, visto che è impossibile sapere prima di aprire la scatola se il gas sia stato rilasciato o meno, il gatto si trova in uno stato indeterminato: è sia vivo sia morto. Temiamo che questa sia la condizione attuale dell’Italia, ma ancor più dell’Unione Europea. Viva, ben viva, per impartire ordini e ingiungere agli stati servitori di aderire al Meccanismo Europeo di Solidarietà, ovvero passare dallo stato di servitù volontaria a quello di schiavitù perenne, ma contemporaneamente morta se c’è da agire contro il contagio.
La Banca Centrale avverte, con il delizioso accento francese di madame Lagarde, che non può fare nulla, che lo spread non è affar suo e se la sbroglino i governi. La Commissione dà via libera alla deroga dello scellerato Patto di Stabilità- il rapporto tra debito e PIL- nel momento in cui è chiaro che gli Stati hanno ben altro a cui pensare che contare i centesimi nel borsellino. Il trattato di Schengen, il pezzo di carta che apre – o abolisce, a piacere –le frontiere, è già un pezzo di antiquariato senza collezionisti. Di un coordinamento per misure sanitarie d’eccezione non si parla, mentre la solidarietà tra i popoli fratelli (coltelli) si infrange sull’import export di mascherine. Se qualcuno dei politici falliti in Patria, riciclati a Bruxelles nella Commissione, si azzardasse oggi a gridare al lupo! per auspicabili aiuti di Stato alle industrie in crisi, verrebbe seppellito dalle urla della popolazione, da Helsinki a Nicosia.
A che serve dunque l’Unione Europea? Come il gatto di Schroedinger è viva ma anche morta. I cani da guardia delle conclamate quattro libertà della globalizzazione – libera circolazione di uomini, merci, servizi e capitali – tacciono. Il virus si è preso tutte le libertà, travolgendole. Gli orientali reagiscono meglio di noi, fieri occidentali suprematisti della nostra “libertà”, concetto che nessuno si azzarda più a evocare, in tempo di coronavirus. Sobri, disciplinati e silenziosi, i “musi gialli” (Usa dixerunt) affrontano il pericolo invisibile con esiti migliori. Dalle nostre parti, dopo la negazione, siamo alla lenta elaborazione del lutto e al contrordine generalizzato.
Nell’Italia di Rocco Casalino – la definizione terrorizza quanto la febbre- è esemplare un post apparso sul profilo Facebook dell’ineffabile signora Monica Cirinnà, madre della legge sulle unioni gay e di “figli non umani”, come si autodefinisce. Dopo aver brandito con un sorriso sardonico un cartello in cui affermava, con sprezzo della grammatica, “Dio, Patria, Famiglia, che vita de merda”, ha cambiato registro. Ora posta un giudizioso “#iorestoacasa” con espressione pensosa e testo strappalacrime: per amore del Paese, della famiglia, di mio padre novantenne. Tutti dobbiamo avere grande senso di responsabilità, seguire le indicazioni delle istituzioni e sperare che questo brutto momento passi “.
Paura, eh, Monica? Anche tu morta e viva come il gatto nella scatola del fisico quantistico. Per colpa- o merito –del virus, ora ama la famiglia, nella persona dell’anziano genitore, incolpevole dei torti della figlia, e financo “il Paese “, con P maiuscola, la parola equivoca con la quale nominano la Patria. Loro dicono “questo Paese”, la parola Italia non esce dalla strozza. Ora si avvolgono nel tricolore, come la sciantosa Gea della Garisenda nella guerra ’15-18; lottano contro il virus cantando a squarciagola L’ inno di Mameli. Turba un passaggio: “siam pronti alla morte”. Forse vedremo lei e altri laiconi imitare Stalin, che, nella tempesta della guerra, portò l’icona della Madonna protettrice della Santa Russia su un aereo per dare animo alla popolazione stremata.
Poche storie, è una guerra. Lo dicono i numeri e, tra le righe, lo ammette il più ruspante dei politici nostrani, Vincenzo De Luca, minacciando di usare il lanciafiamme contro gli sconsiderati organizzatori di feste. E se è una guerra, è cosa troppo seria per essere lasciata in mano a Conte, Casalino, al bieco Gualtieri il cui obiettivo è tradire la nazione consegnandoci agli avvoltoi del MES, al ministro della salute, la cui apparizione televisiva provoca contagi. Ha il nome di una virtù teologale, Speranza, ma ricorda piuttosto il monito della Commedia ai dannati dell’inferno: lasciate ogni speranza, o voi che entrate. Invece no, la speranza non solo va conservata e coltivata, ma deve tenerci lontani dal terrore, impedirci di fare la fine dell’uomo evocato da Anton Cechov, che morì per paura di prendersi il colera.
Nessuna temerità e nessuna sottovalutazione: un moderato amor fati, l’accettazione del destino nel momento stesso in cui ci si impegna a evitare il peggio. Miliardi di parole si stanno scrivendo sullo choc da virus che stiamo vivendo, altre se ne scriveranno in futuro. A noi preme sottolineare il ritorno dei fondamentali: la famiglia, la Patria, almeno nella figura dello Stato decisore (pazienza se ha il volto di chi sappiamo), persino Dio, giacché, pur a chiese sprangate, sembra torni la pratica della preghiera. E, più di tutto, al di sopra di tutto, avvertiamo una domanda di autorità che sale da ogni parte, la capacità di decidere e far rispettare le decisioni, anche con il lanciafiamme di De Luca. E poi disciplina, l ‘ osservanza dei precetti e delle disposizioni che ci aiuteranno a vivere, e domani, più probabilmente dopodomani, a riprendere il cammino su basi nuove, con scarpe diverse e cervello sgombro dalle ubbie che hanno avvelenato l’ultimo mezzo secolo.
Libertà “da”, fare ciò che ci pare, il monoteismo del Dio Cavolimiei, unico divieto il divieto stesso, ogni decisione insindacabile in quanto frutto del soggetto sovrano. Chissà che il virus non decreti la morte di “io”. Beato, e non sfortunato come voleva Bertolt Brecht, il popolo che ha bisogno di eroi, medici, infermieri, portantini, badanti. Fortunato se li sa riconoscere e soprattutto imitare. Questo è il momento in cui a ciascuno è chiesto di fare il proprio dovere. Dovere, l’orrenda parola associata all’imperio, alla fatica, all’ingoiare l’amaro boccone di non essere individui “assoluti”, cioè sciolti. Piaccia o no, siamo comunità, animali politici. Chi non ci sta, si accomodi sull’Annapurna o raggiunga i ghiacci antartici.
Nel convento di Teléme, regno di Gargantua, “tutta la vita si svolgeva non secondo leggi, statuti o regole, ma secondo il volere di ciascuno, il loro libero arbitrio. Si levavano da letto quando loro piaceva; bevevano, mangiavano, lavoravano, dormivano, quando ne avevano voglia; nessuno li svegliava, nessuno li forzava a bere o a mangiare o a fare qualsiasi altra cosa. Così aveva stabilito Gargantua. La regola del convento era racchiusa in un solo articolo: fa ciò che vuoi “. Rabelais fu un gigante del genere comico farsesco: non pretese di essere un maestro di pensiero.
No, non si può fare ciò che si vuole. Posso espormi al virus? Sì, dice l’individualismo (ex) rampante: fatti miei. No, replica la voce della comunità: potresti contagiare gli altri. C’è qualcosa che devi al prossimo, il rispetto. Il tempo del dovere è quello in cui si unisce il rispetto di sé (l’onore) a quello degli altri. Mio padre era un uomo semplice, di nessuna cultura, ma anche sotto la neve andava al lavoro. Era tipografo in un quotidiano e, alle rimostranze di mia madre, rispondeva: devo fare il giornale. Nessuna sopravvalutazione, solo il senso di essere al proprio posto. Nessun ruolo è modesto se esercitato con onore, disciplina e senso del dovere. Il coraggio, spesso, scaturisce dalla vergogna di non fare ciò che è giusto.
Se avessimo scritto queste frasi un mese fa, la reazione avrebbe oscillato tra una grassa risata e la premurosa richiesta di terapie psichiatriche. Al tempo del virus, in questa maledetta primavera in cui non si possono neppure seppellire i morti, forse qualcuno si fermerà ad ascoltare. Magari per interesse: vi fa comodo, connazionali fino a ieri spensierati, emancipati, “liberati”, che qualcuno, nel pericolo, sia presente, si prenda cura di voi. Il dovere diventa eroismo, desta meraviglia. La prescrizione di stare a casa diventa un’orribile imposizione. Niente week end, lo sballo è più difficile, la palestra è abolita, come l’aperitivo. Non possiamo, orrore, fare a modo nostro. Lo impone un’entità dimenticata chiamata autorità.
In certi frangenti, vietare è obbligatorio. La personalità autoritaria, oggetto degli strali, dell’odio e della decostruzione fino dagli anni 50 del secolo passato, posta al microscopio e distrutta da scienziati del nulla come i francofortesi, Adorno, Horkheimer, Marcuse, oggi serve; di più, siamo nelle sue mani. Non siamo più superbi creatori, ma creature fragilissime alla mercé di un’entità impalpabile, invisibile, inodore e insapore, il virus. Rifletteremo in un’altra occasione sulle misure sociali necessarie, sul cambio di paradigma che si impone senza margini di discussione, del sovrano-Stato che decide nello Stato di eccezione, ridicolizzando la “clasa discutidora”, i dibattiti infiniti, le riunioni e la votazione a maggioranza.
La domanda è semplice quanto decisiva: vuoi vivere? la risposta è chiara, non avevamo mia visto tanta paura in giro, dunque non resta che obbedire all’autorità. Screditata e inadatta quanto volete, è lo specchio di quel che siamo diventati. Vano sperare che siano migliori di noi. Non dicevamo che “uno vale uno” e i potenti devono “essere come tutti gli altri”? La nostra civiltà deve decidere se essere come il gatto di Schrodinger, morta nell’anima e più o meno viva nell’istinto. Gli anticorpi perduti non si riformeranno in poche settimane, ma il gatto è morto. E’ bastato un virus arrivato chissà come, chissà da dove e chissà perché: primum vivere.
Vivere significa tornare ai fondamenti: la solidarietà che parte dalla famiglia, attraversa la comunità e arriva al vertice dello Stato, il rispetto per gli altri, il dovere compiuto, l’accettazione serena dell’autorità, allenando se stessi ad esercitarla se necessario. E’ la funzione che crea l’organo e i recettori di autorità e disciplina, responsabilità e proattività, sono davvero fuori allenamento. Noi crediamo che esista una banalità del bene alla quale tornare e a cui affidarsi. E’ l’impegno della madre verso i figli, la protezione del padre, far bene ciò che facciamo. E’ anche una lezione religiosa: San Josè Marìa Escrivà de Balaguer radicò la sua Opera su un principio semplicissimo. Nel lavoro, nella vita, agire al meglio, scienza e coscienza, significa onorare Dio mentre si migliora la comunità e si è degni di noi stessi.
Bisogna ripristinare la simmetria tra dare e avere, responsabilità e rendiconto. Tremila ottocento anni fa, nel primo corpo di leggi scritte, il codice di Hammurabi, nella stele su cui venne scolpita la legge, il re Hammurabi riceveva la legge dal Dio della giustizia in piedi, in atteggiamento di venerazione. La legge del taglione che vi è stabilita è l’atto di simmetria, la richiesta di responsabilità. Il nostro è un tempo asimmetrico: si prende e non si dà, si fa tutto per non pagare il conto, appoggiandosi su infinite giustificazioni, e, come no, sul comma quarto quinquies, lettera a, del paragrafo dieci di questa o quella legge “positiva”, sostenuta dall’interpretazione autentica del ministero e da conforme parere della Suprema Corte.
Hammurabi recide il nodo, non si inchina alla Dea Ragione ma a Samas, dio della giustizia. Non era liberista, poneva sotto la protezione dello Stato i poveri, le vedove e gli orfani, rialzava i salari e stabiliva giorni di riposo annuali. Neppure eteropatriarcale, giacché forniva riparo contro i maltrattamenti del marito. Le magnifiche sorti e progressive dell’uomo occidentale contemporaneo hanno istituzionalizzato l’asimmetria, la prevalenza dei diritti sui doveri, il principio che esistono per tutto attenuanti, esimenti e giustificazioni. In tempi eccezionali, ne misuriamo la vanità, la debolezza concettuale e l’inservibilità pratica.
Il mondo che abbiamo costruito non è diverso dal paese dei balocchi di Pinocchio. Ci si trasforma in asini e si viene venduti al mercato: una sinistra somiglianza con il presente. Covid19 ci ha ricordato, bruscamente e senza preavviso, che il conto si paga sempre. Con maggiore forza dell’economista MIlton Friedman, profeta della scarsità, per il quale non ci sono pasti gratis, il virus rammenta che la cambiale arriva sempre a scadenza. Ci si può nascondere, ma il momento della verità scocca sempre. In attesa di discutere del futuro comune senza superstizioni mercatiste, ce ne faremo una ragione se i limoni non arriveranno dall’Argentina. Quando il gioco si fa duro, chi fa da sé fa per tre. Non dobbiamo chiedere alla benevolenza o all’interesse altrui, mascherine, presidi sanitari e tutto il resto, ma ritrovare l’orgoglio di costruire tutto il possibile con le nostre mani, con la fondamentale distinzione tra beni (ciò che serve davvero) e merci (quello che sta sul mercato). Nel pericolo, ciascuno diventa ciò che è, ma il coraggio serve al debole, non al forte, come la frontiera, la casa, la propria gente, sono il rifugio dell’uomo comune, quello che possiede solo mani, cuore e cervello.
Abbiamo prestato troppa fede alla scienza, alla tecnica, all’economia, alle favole cosmopolite, agli arcobaleni di cartapesta. Nella fisica quantistica, si può, forse, essere vivi e contemporaneamente morti. Vale anche per le civiltà, e fu il monito di Paul Valéry all’Europa dopo la strage della prima guerra mondiale. Per l’uomo comune valgono principi diversi, l’istinto di conservazione e l’amore tenace per ciò che è proprio, quello che vediamo, calpestiamo, amiamo da sempre. Dio, patria, famiglia, lavoro, dovere, comunità, l’autorità che conosciamo e riconosciamo.
Basta con i globalisti, i tecnologi e gli economisti. Alberico Gentili, uno dei padri del diritto internazionale e della cosiddetta codificazione, attaccava in nome della secolarizzazione l’ingerenza dei teologi. La sua celebre invettiva fu “silete, theologi, in munere alieno! “. Tacete, teologi, su faccende che non vi riguardano. Aveva torto, come sapeva Hammurabi nella notte dei tempi. Tacete, globalisti, in munere alieno. Avete fallito; la campana, finalmente, suona per voi.